Marina
illustrazioni di Giulia Rosa
testi di Lorenza Tonani
Hop Edizioni, 2018
€ 18,00
Chi ha paura di Marina Abramović? Se di puro panico possono essere state le reazioni del pubblico che nel corso dei decenni ha avuto occasione di assistere alle numerose azioni estreme con cui, da donna e da performer, ha rivoluzionato la ricerca artistica del Novecento, quello che i più provano oggi nei suoi confronti (detrattori esclusi) è forse meglio definibile come “timore reverenziale”. Amata e addirittura venerata, sempre più corteggiata e a propria volta ammiccante nei confronti dello show business generalmente inteso, la Abramović – o più semplicemente, appunto, Marina – è una figura il cui carisma sconfina dal sistema dell’arte inteso in senso stretto per diventare vero e proprio fenomeno di costume, guru, idolo, icona, mito vivente, mostro sacro. Eppure, se c’è una parola chiave nella vita di questo incredibile personaggio la cui biografia è oggetto dell’ultimo e riuscitissimo volume della collana Per Aspera Ad Astra, appena pubblicato da Hop! Edizioni a firma dell’illustratrice Giulia Rosa, questa è proprio la paura. Paura da affrontare e superare, come si legge sul retro di copertina, «grazie alla forza della mente, alla concentrazione, al flusso energetico, al ricambio di energia». Paura da sfruttare, dunque, da rivolgere contro se stessa e a proprio vantaggio, in una sfida costante e continua diretta al proprio sé, e capace, se ben condotta, di liberare da quei mali originari e da quei traumi che tutti racchiudiamo in noi come segreti.
Nelle quaranta tavole di cui si compone il volume c’è tutto ciò che più conta e che più ha contribuito a formare Marina come donna e come artista, a partire dalle tormentate vicende familiari: ci sono Vojin e Danica, genitori nonché importanti esponenti del partito comunista, che con l’infelicità del loro matrimonio e l’educazione estremamente autoritaria e severa (impartita soprattutto dalla madre, dato l'abbandono precoce del padre) segneranno profondamente il carattere di quella figlia estremamente sensibile nata il 30 novembre 1946 nella Jugoslavia di Tito, e che manifesta con precocia il desiderio di intraprendere un percorso estetico non convenzionale, diametralmente opposto alle stereotipie care all’Accademia. E ci sono dunque, soprattutto, le tappe di questo processo di formazione, dai primi esperimenti avanguardistici alle sfide più clamorose ai limiti del proprio corpo, sottoposto a un processo di sopportazione dello sforzo, della fatica e del dolore che finisce sempre con il chiamare in causa il suo contraltare astratto, evanescente, spirituale. Ci sono amanti e amori (su tutti quello smisurato per il “collega” tedesco Ulay, per anni compagno e complice in ogni cosa), ci sono traslochi e viaggi di scoperta di sé e dell’altro da sé, soste ai confini del mondo cosiddetto civile e ibridazioni recenti con il mero intrattenimento (dalla famosa citazione nella serie TV di culto Sex and the city alla collaborazione con la pop star Lady Gaga, testimonial eccellente di quel Metodo Abramović raffinato in anni di ricerca e pratica allo scopo di educare le persone attraverso spiritualità, scienza e tecnologia).
Giulia Rosa_Sicilia! |
Tutta la vita di Marina, così come appare nelle illustrazioni di Giulia Rosa, è scandita da infiorescenze impreviste e soavi, gemmazioni spontanee che esplodono all’improvviso sui visi e sui corpi. È un continuum di stridenti e simbolici contrasti, in cui le sagome leggiadre di farfalle colorate possono galleggiare in gran numero sulla pagina alla pari di foglie, siringhe, ossa e organi magicamente fuoriusciti dai confini del corpo. È una galleria di volti spesso senza occhi, con sguardi ciechi che alludono a visioni interiori e ulteriori. Intensa come un bouquet e pungente come uno stelo spinoso, somiglia in tutto proprio alla regula della performance art, che fa sudare, lacrimare e sanguinare. Un’atmosfera di vaga surrealtà accomuna le tavole, in cui la compresenza di differenti scale dimensionali fa il paio con un senso di metamorfosi perenne. Niente di strano, dunque, che mazzi di sensuali rose rosse sboccino (tra le altre insolite sedi…) sull’impugnatura dei mitra posti a occultare le facce dei genitori di Marina, impettiti nelle loro divise militari. E sembra del tutto normale che i suoi amori ne risalgano le arterie come piccolissimi ciclisti, mentre una mano di lei si posa sul cuore - esposto in qualità di organo, dunque messo letteralmente a nudo - e l’altra sembra muovere un fin troppo riconoscibile “Cupido”. E che dire, sempre a proposito di archi e di strali, della tavola dedicata agli anni della vita nomade di Marina e Ulay? Per evidenziare il legame simbiotico che si venne a creare tra i due, e che tanta parte ebbe nella loro maturazione personale e artistica, Giulia Rosa li trasforma in una singolare coppia di centauri: i loro mezzi busti, fissi nella posa dell’incredibile lavoro Rest Energy (1980) (lei che regge una grossa balestra, lui che tende la corda su cui è incoccata una freccia diretta al cuore della partner) formano un tutt’uno con la sagoma del vecchio camioncino Citröen della polizia che, ridipinto di nero, fu per anni la loro casa mobile.
Giulia Rosa_La casa dei sogni in Giappone |
Se gli sfondi sui quali fluttuano le figure si accordano ai toni pastello tipici dei lavori dell’illustratrice, è però il colore rosso che impone la sua presenza in ogni dove, ora occupando campiture intere (a partire dalla copertina del volume) ora in piccoli e irrinunciabili tocchi, siano di rossetto sulle labbra o di smalto sulle unghie. Rosso è il fazzoletto politico che Marina può legare al collo a sette anni per diventare “pioniera di partito”; rosso è il paio di décolletés con tacco a spillo dalla cui altezza, e ormai all’acme del carisma e del successo, può misurare “truffautianamente” la superficie del mondo; rosso è l’iconico abito sartoriale disegnato per lei in occasione della performance al MoMA di New York The artist is present (2010), quando per tre mesi e otto ore al giorno stette seduta immobile di fronte agli spettatori accorsi al museo. E rosso, come è ovvio, è il sangue: quello che sgocciola dalla pelle della giovane artista nuda in Rhythm 0 (1975), quando il pubblico dello Studio Morra di Napoli, per sei ore libero di disporre a piacimento del suo corpo, non riuscì a sottrarsi all’offesa fisica; quello, assai più abietto e drammatico, grondante dalle duemila ossa di vacca ripulite con una spazzola di ferro per sette ore al giorno e per quattro giorni di fila nel torrido seminterrato del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 1997, nell’estenuante rito purificatorio della recente tragedia balcanica dal titolo Balkan Baroque, che le valse il Leone d’oro.
Giulia Rosa_Balkan Baroque e il Leone d'oro alla Biennale di Venezia |
Nel misurato dialogo con i testi sempre accurati di Lorenza Tonani, Giulia Rosa è riuscita nell’intento non semplice di restituire con originalità e rispetto il percorso biografico e artistico di una tra le più straordinarie artiste viventi; un’artista che, nonostante l’auto-ironica definizione di “nonna della performance art”, non mostra sintomi di senilità né a livello esistenziale né a livello artistico. Un'artista talmente auto-ironica (o forse no?) da immaginare anche la sua morte sub specie performativa, per continuare a confondere il suo pubblico anche in quell'ora estrema che - pensiero dominante e rischio concreto di un'intera esistenza - la proietterà finalmente in una nuova, agognata dimensione: quella del tempo e della durata, nella permanenza di una memoria, la sua, certamente imperitura.
Giulia Rosa_Marina come Maria Callas: work in progress |
Cecilia Mariani