di Sarah Cohen-Scali
L’ippocampo, 2016
pp. 445
€ 15,90
Traduzione di Fabrizio Ascari
Il mio desiderio, il primo della mia vita futura, è di vedere la luce il 20 aprile. Perché è il compleanno del nostro Führer. Se nasco il 20 aprile, sarò benedetto dagli dèi germanici e si vedrà in me il primogenito della razza suprema. La razza ariana. Quella che regnerà ormai sovrana sul mondo. [...] È esattamente ciò che voglio: essere flessuoso, slanciato, agile, duro, coriaceo. Morderò invece di poppare. Urlerò invece di balbettare. Odierò invece di amare. Combatterò invece di pregare. Oh, mio Führer, non voglio deluderti! Non ti deluderò! [...] Sono il bambino del futuro. Il bambino concepito senza amore. Senza Dio. Senza Legge. Senza nient'altro che la forza e la rabbia. Heil Hitler! (pp. 8, 9, 17).
Già dall'esordio appare chiaro che Max non è un libro facile, non è un libro comodo, non è un libro per tutti. Il target è quello dei giovani adulti, ma tale etichetta richiede prudenza: si possono avvicinare i ragazzi al testo, ma occorre che abbiano precognizioni storiche, una testa ancorata saldamente alle spalle e possibilmente un adulto che funga da mediatore, da interfaccia dialettica di fronte ai contenuti più forti. Perché Max è la storia di un piccolo nazista, il nazista perfetto: concepito per essere l'esemplare più puro della razza superiore, cresciuto a base di diktat e assiomi perentori e per noi oggi inaccettabili, infarcito – già prima di nascere, già per il modo in cui viene al mondo – di violenza, turpiloquio, luoghi comuni e valori sovvertiti.
Nell'immaginario dell'autrice, il piccolo Konrad von Kebnersol, nato non a caso il 20 aprile del 1936 e BDFP ("battezzato dal Führer in persona"), è il primo esemplare del progetto “Lebensborn”, ideato da Heinrich Himmler e mirante al ripopolamento della Germania attraverso l'incentivazione di una procreazione "assistita" in centri specifici e la germanizzazione dei migliori esemplari di razza nordica ritrovati e sequestrati nei paesi occupati. I bambini ritenuti adeguati – cioè sopravvissuti a una rigida selezione iniziale – vengono sottratti ai genitori biologici e inseriti in precisi contesti educativi, dove subiscono la colonizzazione del pensiero necessaria per aderire totalmente e con reale convinzione ai dettami del nazionalsocialismo.
Konrad, chiamato "Max" in segreto dalla madre a cui è strappato troppo presto perché la sua presenza possa lasciare tracce ("A che serve una madre? Se non a farvi venire un terribile mal di pancia quando se ne va?", p. 172), è un personaggio sgradevole perché parla male e pensa male, dominato com'è dalla brutalità di parole e atteggiamenti: crede fermamente, intimamente, nella propria superiorità, aderisce a tutte le direttive e le sviluppa ulteriormente, perfezionandosi nell'arte della delazione e della complicità al crimine, configurandosi subito come "bambino prodigio" a cui nessuno può dire di no.
Non bisogna cercare nel testo la verosimiglianza dell'espediente narrativo: Max, che racconta la storia in prima persona, non parla come un infante, né del resto era questo l'obiettivo dell'autrice. Sarah Cohen-Scali, calandosi nella mente di un bambino che non è mai veramente tale perché è soprattutto efficacissima metafora (e "automa", nel senso di essere creato per obbedire meccanicamente a indicazioni ricevute, senza interrogarsi mai), riflette su come si possa creare il fanatico perfetto.
È necessario sopprimere lo spirito critico ("Male, i dubbi. Gli interrogativi, ancora peggio. Non bisogna mai porsi degli interrogativi. Bisogna avere cieca fiducia nel nostro Führer!", p. 32); bisogna aderire al pensiero dominante ("Ascoltare la radio è un dovere civico. Chi non lo fa, viene denunciato e punito. È indispensabile per l'apprendimento dei sentimenti unitari. Per creare una comunità nazionale, solidale, conquistatrice, mobilitata dietro il Führer", p. 37); si deve sopprimere ogni sentimento di amore e compassione, di empatia per l'altro ("Noi formiamo una catena in cui ogni anello, anche il più piccolo, ha la sua importanza. I più deboli muoiono perché i più forti divengano invulnerabili", p. 80, o ancora: "mi pongo delle domande su ciò che si aspettano da me: dovrò simulare l'amore per questa madre? Come? Temo di non riuscirci, non sono stato concepito per questo", p. 86). La nuova gioventù deve essere irruente, impulsiva, muscolare, e soprattutto deve ragionare il meno possibile ("non voglio alcuna educazione intellettuale. Il sapere non fa che corrompere i miei giovani", p. 87). Di tutto questo, Max è la realizzazione perfetta. Il libro disturba per la crudeltà messa in bocca a un bambino così piccolo, perché si ha la percezione che questo non si limiti a ripeterla come un pappagallo, ma ne sia visceralmente convinto. Pare quindi che il determinismo sia destinato a trionfare, e questo è difficile da accettare. Così come l’idea, che si farà strada solo nel prosieguo della narrazione, che il piccolo grumo di cattiveria che è Konrad/Max (e che l’autrice rende volutamente impossibile da sopportare) sia vittima e non carnefice, sia quello a cui bisogna augurare un’occasione di salvezza. Quando il narratore racconterà la sua storia a un improbabile alleato, vedrà il suo interlocutore piangere, accostando lo stupro dell’infanzia subito dai bambini-automa a quello sofferto dalle vittime della furia nazista:
Quando la guerra sarà finita, se riusciamo a cavarcela, dovremo testimoniare, tutt’e due. Io, per quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei e ai polacchi. Tu per quello che hanno fatto a te. (p. 257)
In effetti, gli unici momenti in cui sembra data una possibilità di cambiamento sono quelli, rari e solo temporanei, spesso fortunosi, in cui il bambino si trova lontano dalla morsa del sistema di plagio in cui è inserito. Finché la sua mente è giovane rimane infatti duttile ai segnali esterni e il condizionamento può avvenire nelle due direzioni. Il problema è dato dal fatto che, in un contesto blindato, non sono offerti stimoli diversi da quelli della logica dominante, quindi quella nazista (e tutto, le canzoni, le lezioni di biologia, i problemi di matematica, gli esercizi di letteratura, sono orientati a barbarie e antisemitismo). La forza del romanzo, che scorre nonostante il volume considerevole, sta proprio nella fiducia dell'autrice nella possibilità di un'alternativa – che arriva in un modo completamente imprevedibile e che fa riemergere dall'inconscio di Max sentimenti che si credevano sopiti o assenti. Perché c'è qualcosa che sopravvive al plagio, una voce che parla dentro, qualcosa che riemerge al di là del lavaggio del cervello (il ricordo istintivo di una donna che accudisce amorevolmente, il suono di un nome rimosso, l'apprezzamento per la tenerezza le rare volte in cui la si accetta come eventualità). C'è, soprattutto, un “mal di pancia” che talvolta colpisce implacabile e che ricorda – al lettore, non al bambino che non capisce – il sussistere di una coscienza.
Non ci trova quindi di fronte a un'opera cinica o fatalista, ma a un romanzo di formazione che parte e si conclude in situazioni estreme, coinvolgendo un segmento della vita del protagonista, quello dell'infanzia, che è fondamentale per la definizione della personalità. La formazione del protagonista non è certo facile, né appare conclusa alla fine del libro: passa attraverso la confusione, i dubbi che emergono dalla prova evidente della falsità di alcune nozioni assimilate e assolutizzate, i sensi di colpa. La fragilità, il dolore. Soprattutto attraverso quello che è il motore, la scintilla che innesca il cambiamento: il confronto con un "altro" che è al tempo stesso diversità irriducibile e specchio di sé. La "Quarta parte", ambientata in una Berlino attraversata dalle truppe sovietiche e che cerca in qualche modo di sopravvivere e rialzarsi, il sogno del Reich si consuma tra le macerie, e la consapevolezza, unita alla perdita e all'accettazione dei propri sentimenti, è forse la tappa definitiva della crescita di Max, che ha "solo nove anni e mezzo", ma "cred[e] proprio che in tempo di guerra per un bambino gli anni contino il doppio" (p. 441).
Carolina Pernigo