L'epopea di Arriaga, ossia: anche i selvaggi hanno bisogno di un branco

Il selvaggio
di Guillermo Arriaga
Bompiani, 2018

pp. 752
€ 22 (cartaceo)


La vendetta ci gorgoglia nel sangue. È reale, palpabile, inerente alla nostra specie, è nella nostra natura. La giustizia è un apparato inventato dai piranha del dolore: poliziotti, giudici, avvocati, in agguato nella melma in attesa che le vittime cadano nella pozza, pronti a divorarle. Con i dentini affilati strappano via la loro fetta di sofferenza umana. La giustizia alimenta animali che si cibano di carogne continuamente avidi di vittime. La giustizia è la fonte della corruzione, una fandonia.  […] Per questo esiste la vendetta. Per spazzarli via. Per ripulire quel brodo maligno e putrido. (p. 539)

Attardarsi nella disperazione o reagire? Sono queste le due vie che si stagliano davanti a Jean Guillermo dopo l’assassinio del fratello tanto amato da parte di un gruppo di fanatici religiosi ed estremisti di destra neo maggiorenni.
Siamo alla fine degli anni sessanta, in un Messico in cui la legge è legata a doppio filo a un sistema di corruzione che non consente a tutti di avere la giustizia che meritano. E Jean Guillermo non solo assiste impotente a tutta quella serie di eventi che portano alla distruzione della propria famiglia, ma addirittura ne è, a suo modo, artefice. È la rabbia, dunque, mista al senso di colpa e alla disperazione, a dominare questo romanzo maestoso e potente, certamente non indifferente per i contenuti né per il linguaggio usato (complice anche l’ottima traduzione); ma insieme alla rabbia troviamo anche l’apatia di chi non ha i mezzi per uscire con le proprie gambe dall’inferno che gli sta capitando attorno.
E qui arriviamo al cuore di questo “secondo punto di vista” (il primo è di Gloria Ghioni, che ha recensito il libro a giugno) sul Selvaggio di Arriaga.
Così come il leggendario cacciatore inuit Amaruq, che va alla ricerca del lupo Nujuaqtutuq per poterne vestire le pelli, anche Jean Guillermo è destinato alla sconfitta nel momento in cui decide di compiere in solitaria la propria missione. Amaruq, nel filone temporale alternativo a quello della storia principale, soccombe rischiando di portarsi appresso la carcassa di un lupo catturato ma ormai ridotto in fin di vita, e lo fa proprio nel momento in cui comprende che non c’è onore nel rendere schiavo un animale per propria natura destinato alla libertà; Jean Guillermo, invece, si lascia abbracciare dall’affetto del suo nuovo branco, composto dal domatore circense Sergio e dalla giovane Chelo, i cui corpi portano impresse le cicatrici di una vita aspra.

Jean Guillermo perde tutto, dunque, poiché la morte violenta del fratello è solo l’inizio del declino. Eppure la scelta di salvare il lupo Colmillo, discendente di quel Nujuaqtutuq tanto bramato, di combattere il suo lato selvaggio e indomito, è proprio ciò che consente la rinascita del ragazzo. La volontà di evitare altra morte, di ripagare anzi la morte con la vita, è il punto di partenza per la creazione del nuovo branco. Risuonano in questo gli echi nietzscheani (un filosofo più volte richiamato durante il romanzo) dell’uomo che dice sì alla vita nello Zarathustra, e lo fa divorando la realtà che ha intorno.

Non è un caso, a mio avviso, che anche il linguaggio e lo stile risentano di questo cambiamento di prospettiva. Le prime 5-600 pagine sono violente (seppur poetiche), frammentate, e possiamo trovare la parola “morte” in almeno una cinquantina di occorrenze, senza contare i continui cambi di piani temporali che, alternandosi, creano un effetto ossessivo e distorcente in cui è facile perdersi. Poi però vediamo come le diverse prospettive comincino a svanire una dopo l’altra, finché tutta l’attenzione si focalizza sul presente, come uno yogi che, eliminando ogni distrazione, si concentri solo ed esclusivamente sul proprio respiro. E dunque ciò che resta è la vendetta che, selvaggia, si contrappone alla placida, borghese e impossibile giustizia.

Questo ci porta al finale della storia, il quale risulta essere, a confronto col resto del libro, fin troppo moderato e positivo. Tutte le sotto trame infatti si incontrano nelle ultime pagine, tutti i conflitti vengono risolti e, sebbene sia questo il procedimento che di solito avviene nei romanzi – anche in quelli più disperati –, non è forse il finale che ci si aspetta. Non in questi termini. Ma – e qui il “ma” è d’obbligo – esattamente come il cambio di prospettiva, forse anche questo modo di percepire il mondo acquista un senso all’interno di una storia che vuole essere costruttiva e non distruttiva. Perché in fin dei conti fra la disperazione e la reazione violenta c’è una terza via, una via che prevede lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare.
Esattamente la possibilità che viene concessa a Colmillo: non l’abbattimento selvaggio, non la reclusione domestica in un recinto, bensì la libertà.

Il selvaggio è dunque un romanzo di formazione epico e complesso, una lettura certamente non semplice ma che lascia un grande spazio vuoto una volta terminata. C'è tanta storia qua dentro, c'è un mondo intero che si è sviluppato nel frattempo, una narrazione che riesce a scavarsi una tana nella mente di chi legge. È un libro bello, che ripaga ampiamente del tempo richiesto per leggerlo.

David Valentini