Alpi ribelli
di Enrico Camanni
Editori Laterza (Economica), 2018
pp. 237
€ 11 (cartaceo)
Che cosa accomuna
Fra Dolcino e i No Tav? Reinhold Messner e Guido Rossa? Tina Merlin, i Valdesi,
Tita Piaz e Alexander Langer? Semplice, il fatto di avere la montagna nel proprio Dna… montagna da vivere, da
raccontare, da praticare, da difendere. Contro conformismi,
sfruttamenti e cattive pratiche.
In questo bel libro, da poco uscito per
l'edizione Economica di Laterza, Enrico Camanni delinea numerose figure di
"ribelli" della montagna, personaggi che hanno rappresentato un modo diverso e, per l'appunto, "ribelle" di
guardare ai territori montuosi. Contro il potere costituito, le convenzioni, la prona accettazione, le pratiche del turismo di massa, le modalità di sfruttamento scriteriate o non accuratamente pensate. E Camanni,
il quale è uno che di montagna se ne intende (è lui stesso alpinista, oltre a
essere un giornalista che di terre alte ha sempre parlato, nelle riviste che ha
fondato e diretto, Alp e L'Alpe, sul quotidiano La Stampa e nei suoi numerosissimi libri) ci presenta persone e vicende
con il ritmo della grande Storia.
E noi lo seguiamo in
questa lunga cavalcata nello spazio e nel tempo: dalle Alpi
Marittime che toccano il mare di Ventimiglia fino alle Alpi Orientali che
sfiorano il mare di Trieste, dal Medioevo di Fra Dolcino fino agli anni Duemila
del Tav, il treno ad alta velocità che dovrà collegare Torino e Lione, passando
proprio nelle viscere della montagna. Un tema, peraltro, che, come un fiume
carsico, appare e scompare periodicamente. In questo momento ben presente
nell'agenda di governo, dove alcuni la ritengono un'opera da ridiscutere, altri
invece la sostengono a spada tratta.
Capitolo dopo
capitolo prendiamo sempre più coscienza del fenomeno di colonizzazione urbana
che ha interessato vasti tratti delle Alpi. In modo particolare con l'avvento
del turismo legato allo sci, che, come nessun altro fenomeno, è stato in grado
di cambiare drasticamente il volto delle montagne: comprensori sciistici sempre
più estesi e collegati, funivie rotanti e panoramiche, piste larghe e comode
che si aprono come ferite nelle pinete, impianti di innevamento artificiale,
cemento, seconde case, parcheggi, motori. Laddove c'erano tradizioni contadine
solide e vite basate su valori di risparmio e sobrietà è passata la valanga
dell'"oro bianco" e del divertimento a tutti i costi. E così
Le Alpi sono diventate il più grande parco giochi della città. (p. 7)
A fronte di queste
giustissime e sacrosante convinzioni, c'è però anche da farsi una domanda di
fondo, e, leggendo alcune pagine particolarmente veementi, me la sono posta: ma
una montagna senza turismo non è una montagna che muore? Che si spopola? Perché
rimangano vive le terre alte hanno bisogno di abitanti e gli abitanti, per rimanere in
un determinato luogo, devono avere un lavoro. Che, innegabilmente, in
montagna, nell'ultimo cinquantennio, si è identificato con il turismo. Certo,
bisognerebbe limitare gli eccessi, progettare secondo criteri di
ecosostenibilità, creare insomma una montagna da vivere, non da consumare. Ma
se è vero che gran parte di coloro che in inverno sfrecciano giù dai pendii innevati, in estate sono da tutt'altra parte
(spesso e volentieri nelle località di mare più in) riprendendo a interessarsi di montagna al ponte dell'8 dicembre, è anche importante tener presente che gli introiti invernali riescono a
far fronte alle problematiche che si presentano durante tutto l'arco
dell'anno.
Ma lasciamo queste
considerazioni che meriterebbero un saggio a sé e torniamo ai nostri ribelli,
perché il focus del libro è proprio questo: offrirci la possibilità di
conoscere un pensiero divergente rispetto all'omologazione, al politically
correct, all'entusiasmo collettivo per il supposto progresso.
Ascoltiamo quindi
la voce di Tina Merlin, la coraggiosa giornalista che si batté per far capire
ai potenti costruttori della diga del Vajont che se il Monte Toc
("pezzo" in friulano) aveva questo nome un motivo c'era… voce
inascoltata finché il 9 ottobre 1963 un "toc" enorme del monte precipitò nell'invaso
originando un'ondata talmente alta e potente che si portò via Longarone e gran
parte di Erto e Casso. Insieme a 1910 vite umane.
O partecipiamo alle riflessioni di Nuto Revelli, che in montagna visse da partigiano. Come Giovanna Zangrandi, «montanara per scelta, ribelle per natura».
O ancora ammiriamo le figure di scalatori che, contrapponendosi ai "padri", hanno portato nell'alpinismo nuove forme di arrampicata, da Tita Piaz, il «diavolo delle Alpi», che apriva vie ai limiti dell'impossibile, ai free climbers del movimento del Nuovo Mattino, i quali, importando stili e idee dalla California dello Yosemite Park, ripudiavano la vetta come il fine e la fine dell'arrampicata.
Fino ad arrivare alle pagine, per me molto suggestive, dedicate ai laghi artificiali, ossia gli invasi che hanno dato energia e potenza alle centrali idroelettriche alla metà del Novecento.
Quando non li ha mangiati il tempo, i villaggi delle alte valli sono stati annegati dalle piene degli invasi idroelettrici. Si potrebbe dire che le case abitano sul fondo, ma è giusto darsi pace e ammettere che sono morte, e come tutti i morti non si mostrano, non si dolgono e non si imbarazzano. Invece i laghi luccicano, lucidano gli occhi, hanno colori di cobalto e acquamarina. [...] A vederli adesso sembra che siano sempre stati lì perché l'artificiale, con il tempo, diventa naturale. (p. 149)
Come non pensare al
bellissimo romanzo di Marco Balzano, uscito quest'anno per Einaudi, Resto qui, una bellissima storia di resistenza e resilienza dedicata agli
abitanti di Curon Venosta che si batterono contro il gigante Montecatini perché
non costruisse la diga, ma poi dovettero rassegnarsi a vedere il proprio paese sommerso dalle acque del lago di Resia. Da cui spunta,
come monito e ormai attrazione turistica, il campanile della chiesa.
Come se sotto l'acqua non ci fossero le radici dei vecchi larici, le fondamenta delle nostre case, la piazza dove ci radunavamo. Come se la storia non fosse esistita. […] Nessuno può capire cosa c'è sotto le cose. Non c'è tempo di fermarsi a dolersi di quello che è stato quando non c'eravamo. Andare avanti, come diceva Ma', è l'unica direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci. (p. 173)
Ma sono ancora tante
altre le suggestioni che fuoriescono da questo volume, che non dovrebbe mancare
nella valigia, o meglio nello zaino, di chi quest'estate partirà per una
qualsiasi valle delle nostre bellissime Alpi.
E se a volte il
racconto perde di oggettività per dare spazio alla passione, ben sapremo
valutare questi passaggi, sia che il nostro sentire sia vicino a quello di
Camanni, da veri "ribelli", sia che prevalga nel lettore un'idea
diversa.
Non si cerchi però in
questo libro un'unità di racconto: passando in rassegna tali e tanti
personaggi, chiaramente il libro è formato di capitoli a sé stanti. Ma
tenendo ben dritta la barra sul concetto di alterità si riuscirà facilmente a mantenere il
filo delle idee.
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