di Domenico Starnone
Einaudi, 2014
pp. 138
€ 12,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all'improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata, doverti ritirare a casa a ora di cena, dormire con me e non con chi ti pare, ti fa sentire cretino. Lo so che ti vergogni di dire: vedete, mi sono sposato l'11 ottobre del 1962, a ventidue anni; vedete, ho detto sí davanti al prete, in una chiesa del quartiere Stella, e l'ho fatto solo per amore, non dovevo mettere riparo a niente; vedete, ho delle responsabilità, e se non capite cosa significa avere delle responsabilità siete gente meschina. Lo so, lo so benissimo. Ma che tu lo voglia o no il dato di fatto è questo: io sono tua moglie e tu sei mio marito, siamo sposati da dodici anni - dodici anni a ottobre - e abbiamo due figli (p.5).
Con questo monologo, pregno di un
dolore appuntito ma composto, si apre Lacci (recensito anche da Marco Caneschi), romanzo che Starnone dedica alla
vicenda del tradimento e della successiva riconciliazione di una coppia, quella
di Vanda e Aldo, e alle dirompenti forze che dapprima scuotono e poi
ricompongono l’unità di una famiglia. Nel suo investigare la vita coniugale, Lacci
si pone come ideale complemento di altre due precedenti opere di Starnone: Via Gemito (2000) e Autobiografia erotica di
Aristide Gambia (2011). Tuttavia, tra queste permangono delle sostanziali
differenze sia per i temi trattati, sia per i tempi di ambientazione. Infatti,
mentre Via Gemito affronta il tema delle dinamiche famigliari nell’Italia post
fascista così come queste vengono viste dagli occhi del figlio dei protagonisti,
l’Autobiografia è più centrato sulla rappresentazione della sessualità e sulle
trasformazioni subite dalla famiglia e dalla coppia nella seconda metà del
secolo scorso.
Lacci idealmente segue questa scia e, indagando la vita
matrimoniale nel momento in cui questa si spezza e, successivamente, si
ricompone, vuole offrire uno spaccato di cosa hanno realizzato in termini di
vita coniugale, gli uomini e le donne che sono stati giovani negli anni
Sessanta. Dello spirito di quegli anni si avverte la presenza nella narrazione
attraverso una spinta all’emancipazione enunciata dal dualismo pulsante tra il
vincolo dell’aspettativa sociale della coniugalità e il desiderio ribelle di un
amore libero, assoluto, dirompente che, inevitabilmente, finirà per urtare la
vita famigliare dei protagonisti, frantumandola. Un esempio di questo contrasto
si ritrova in un episodio in cui Aldo, oramai allontanatosi da casa, descrive e
poi interpreta la rabbia della moglie Vanda:
Cominciò a ridere senza ragione, se ne andò in camera da letto, si mise a cantare a gola spiegata vecchie canzoncine per bambini. Dopo un po’, certo si ricompose, si ricomponeva sempre. Ma a ogni ricomposizione sentivo che aveva perso qualcosa di sé che in tempi andati mi aveva attratto. Non era mai stata così, si stava guastando per colpa mia. E tuttavia quel suo guastarsi mi pareva un’autorizzazione ad allontanarmi ancora di più da lei. Possibile – mi dicevo – che debba essere così difficile prendersi un po’ di libertà? Perché siamo un paese così arretrato? Perché in nazioni più evolute tutto accade senza drammi? (pp. 62-63).
In questo suo affondare lo
sguardo nel momento della frattura di un’unione, Lacci è inevitabilmente un
libro di disvelamento e di sofferenza: soffre Vanda, la moglie tradita; soffre
Aldo, il marito che tradisce dilaniato dal conflitto tra il senso di colpa e
l’amore che prova per Lidia; soffrono i figli, che vedono nella madre e nella
famiglia distrutta il simulacro dell’infelicità.
Tuttavia il dolore, seppur
immenso, non scompone i personaggi ma, al contrario, li colpisce con lampi di
consapevolezza pungente, utile più a farli risplendere nel loro dramma che a
trasformarli attraverso di esso. Infatti, proseguendo nella lettura, ci si
accorge che la consapevolezza dei protagonisti, lungi dall’essere un volano si
trasforma in un veleno che li allontana dal loro compimento, dalla loro crescita
e che, nello spingerli verso l’opposto del loro desiderio, afferra il lettore e
lo trascina verso interrogativi profondi, scomodi, che hanno a che fare con le
forze intime, e spesso ignote, che tengono insieme un uomo e una donna nel
tempo.
E dopo essere sprofondati negli abissi della storia di Alfio e Vanda, si
riemerge senza una risposta precisa, ma con una sensazione impalpabile, una
sorta di approdo temporaneo eppure inevitabile in cui fermarsi per comprendere
che non si può dire con esattezza cosa tiene insieme un uomo e una donna, ma,
di sicuro si può dire cosa non è necessario: l’amore. E con questo non si
intende dire che l’amore non basta ma che, forse, addirittura, non serve. Servono
invece dei collanti, non importa se e quanto tossici, l’essenziale è che abbiano
una presa rapida, feroce e costante. Tre caratteristiche che, da sempre, connotano
il dolore e il senso di colpa:
Fu in quel periodo che mi ricordai di mia madre, di quando s’era tagliata un polso con la gilette di mio padre. Il sangue gocciolava sul pavimento, e noi figli per primi le avevamo impedito di tagliarsi anche l’altro. Qualcosa, nello schermo di insensibilità che mi ero costruito durante l’infanzia e la prima adolescenza di fronte a scene come quella, cedette. I tormenti lontanissimi di mia madre, il suo scontento, la rabbia, a volte l’odio verso il marito che le era toccato, mi investirono senza filtro, con una potenza che non avevo mai percepito. Per quella breccia passò anche il dolore di Vanda. E non solo sentii per la prima volta quanto l’avevo scempiata, ma mi resi conto con la stessa insopportabile intensità che mentre io ero stato attento a schivare l’urto di quella sofferenza, i nostri due figli ne erano stati investiti, forse dilaniati (p. 82).
Barbara D'Amen