di Donatella Di Cesare
Einaudi, 2018
pp. 120
€ 12,00 (cartaceo)
Dov’è che l’identità può assumere postura evidente? In un semplice asserto pronunciato forse con troppa leggerezza, “io sono…”, certo, in un grado zero dell’affermazione. Di contro, sa formarsi pure e anzitutto nella sua negazione; abita gli interstizi della prigionia lasciandovi emergere sparute lampi di luce. Così l’identità marrana che Donatella di Cesare, docente di Filosofia Teoretica all’Università La Sapienza, indaga nell’ultima pubblicazione a sua firma, Marrani. L’altro dell’altro (Einaudi), tracciando un profilo, insieme storico, filosofico e biografico, di quel dispositivo che scuotendosi smuove il germoglio identitario. L’altro dell’altro, dunque, il moto di due inezie che ruotando verso direzioni antinomiche producono tanta energia da permettere lo zampillare di qualche scintilla di vita. Aneliti di un’intera comunità di individui doppiamente estranei, suggerisce un brano esibito per copertina.
Per comprendere meglio la natura di
figure tanto fuggevoli quanto nitide non si può lesinare una citazione
dall’esordio, manifesto programmatico dell’indagine: «quando si parla di
marrani, in un’accezione storica», propone Di Cesare, «si intendono quegli
ebrei costretti, nella penisola iberica e nei domini spagnoli a convertirsi al
cristianesimo per sottrarsi all’esilio o alla morte», sin qui l’indagine assume
fisionomia storiografica; ma la filosofia sa farsi così minuta da accompagnare
l’identità negli anfratti e gli zampilli d’esistenza nello sfregarsi degli
ingranaggi. Se dunque i nuovi cristiani, così
battezzati – letteralmente – sono separati dai vecchi cristiani, sospettati «di ebraizzare in segreto», è proprio
l’irriducibilità, della questione identitaria a esibirsi quale più patente
scandalo sul proscenio dell’età moderna. Cristiani eretici o ebrei nascosti? Né
l’uno, né l’altro; oppure entrambi: di fatto alle comunità marrane si nega
tutto fuorché il sospetto. «I marrani portano con sé il seme del dubbio, il
fermento dell’opposizione», prosegue l’autrice, rivelando nella molteplicità lo
sradicamento identitario dell’istituzione cattolica.
Tale la ragione della mancata archiviabilità di cui i marrani sono a
un tempo causa e testimoni, costretti al margine di qualsiasi tassonomia.
L’archivio è il luogo dove l’esistenza si consuma nella propria legittimità
scientifica, è su tutti Michel Foucault a sostenerlo con la più acuta
precisione. «la storia è quella che trasforma i documenti in monumenti»,
sentenzia un brano de L’archeologia del
sapere (tr. it. G. Bogliolo, Bompiani), opera proprio alla metodologia
archivistica dedicata. Donde una conclusione: nulla che abiti l’archivio è
davvero soppresso; occuperà al massimo il territorio di un marginalia o di una nota a piè pagina. È il paradosso del
marranismo, un doppio movimento oppositivo: esibizione e soppressione
dell’identità. Fluida, fugge alle dita quando si desidera trattenerla. Ma
l’archivio pure richiama il veleggiare della storia, una storia che sospinta si
manifesta, appare fantasmatica nel
perimetro di un fondale.
Non senza ragione, Di Cesare
definisce «prima teoria razzista» la Sentencia-Estatuto
promulgata il 5 giugno 1449 nell’assolata Toledo la cui dichiarazione
afferma il primato della limpieza di
sangue, «criterio per essere veri spagnoli». Echeggiano certo ciò cui
l’epoca contemporanea assegnerà il titolo di leggi razziali, l’annientamento
dell’autoaffermazione identitaria di alcune comunità considerate, più che
anormali, deviate. «Il passaggio da una religione all’altra», prosegue
l’autrice, «avrebbe dovuto abolire ogni intento discriminatorio», esautorò
invece il confino esistenziale: era dei marrani, nuovi cristiani, scrutati con il sospetto che si accorda agli
impostori, il peccato di un sangue male accordato al regime della limpidezza, «requisito
formale per poter accedere alla vita pubblica».
Pluralità, dunque, come plurali
erano le invocazioni che fluivano dalle labbra dei marrani; poligonali,
ponderavano preghiere che non dicevano, mescolavano tra loro le empietà. Qualcuno
decise invece per il congedo da ogni religione, «furono i primi ebrei secolari
e, in gran parte […] furono anche i primi atei». Una teologia «svuotata,
frammentata» cui purtuttavia non è negato il nome del signore, il quale nella
tortura risuonava con forse maggior vigore. Dov’è che si incorpora la
religione? Alcune figure la attraversano: l’hidalgo
Don Chisciotte, l’intima castellana Teresa d’Àvila, il fine architetto
dell’etica Baruch Spinoza, «primo intellettuale della modernità secolarizzata».
Traversatori radicali della propria epoca, si potrebbe azzardare che
nell’affanno e nei dibattimenti non cercassero altro che la conciliazione della
pluralità, traghettandosi da un’epoca a un’altra, dal medioevo alla modernità
sino ad approdare, per mezzo di uno di quegli inciampi cui spesso s’incorre percorrendo
la storia, lo svettare delle croci uncinate.
La pluralità diviene trans-storica;
sopravvive al dissolvimento del tempo secondo l’aforisma per cui «quel che è
accaduto potrebbe ripetersi». Che volto esibiscono, dunque, le figure della
comunità marrana? Fisionomie eloquenti di un’indicibile radicale capace di valicare la contingenza per infestare
ogni epoca cui una certa identità sia costretta ad acconciarsi agli arbitrari
decreti dell’imperio; fisionomia fuggevole, minutamente nitida che nessuna
indagine fotografica potrebbe rapire per trattenere, imprigionare al perimetro
della carta. Ecco il ritratto che l’autrice concede ai marrani: ritrattistica
senza soggetto, natura viva. Spettri di una comunità? Soltanto se li si osserva
inabissandosi in una citazione del saggio che Jacques Derrida dedica agli Spettri di Marx nel 1993, «Perché questo
plurale? Ce ne sarebbe più d’uno? Più d’uno, questo può significare una folla,
se non delle masse, l’orda della società, o ancora qualche popolazione di
fantasmi con o senza popolo, una certa comunità con o senza capo – ma anche il
meno d’uno della pura e semplice dispersione. Senza alcun raggruppamento
possibile» (Spettri di Marx. Stato del
debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, tr. it. G. Chiurazzi,
Raffaello Cortina Editore). Non senza ragione dunque Di Cesare ripone Derrida
nel novero dei marrani, «rinvia[ndo] alla storia, alla filiazione, alla sua
ricerca autobiografica». Uno spirito che sopravvive, pure in minuscoli
granucoli di polvere, tra le pieghe biografiche di chi anela a un’identità
plurale. Così quel sommovimento dell’alterità segnalato dal sottotitolo, più
che un rimandarsi: un echeggiare.
Antonio Iannone