Invidia il prossimo tuo
di John Niven
Einaudi, 2018
pp. 290
€ 18,00
Titolo originale: No Good Deed
Traduzione di Marco Rossari
Cosa succederebbe se un giorno, andando sereni per la vostra strada, con i pensieri concentrati su un’incombenza da sbrigare, vi sentiste chiamare e riconosceste, in un senzatetto accovacciato ai vostri piedi, un amico della vostra giovinezza, perso di vista per più di vent’anni? Questo è quello che capita ad Alan, che, dopo una gioventù un po’ goffa e inconcludente, si è trovato a realizzare uno dopo l’altro obiettivi prima neanche immaginati e, alla soglia dei cinquant’anni, ha una moglie bella e intelligente, tre figli amatissimi, una splendida casa e una posizione lavorativa di successo come critico gastronomico. L’incontro con Craig Carmichael è destabilizzante, perché tra i due era sempre stato Craig quello destinato al successo: uomo dalle mani d’oro, bello e abile in tutto, ottimo musicista, aveva sfondato in America con la sua band, i Rakes, salvo poi sprofondare in un abisso di droga e dissolutezze che l’avevano condotto sul lastrico.
In gioventù gli aveva augurato diverse volte di fare una brutta fine. Gli aveva invidiato l’aspetto, il talento, le doti musicali, il successo con le ragazze, la sicurezza, la popolarità. Il giovane Alan Grainger avrebbe tanto voluto essere Craig Carmichael. Ma adesso, lì seduti, mentre entrambi si avvicinavano ai cinquant’anni e tiravano le somme, era molto, molto felice di essere Alan Grainger. (p. 16)
Quel furbone di John Niven, penna caustica e brillante del panorama britannico contemporaneo, che riversa anche nei romanzi la sua abilità di sceneggiatore in dialoghi fulminei e descrizioni incisive, è sempre molto abile nel costruire trame che all'inizio paiono scontate, e che tuttavia obbligano il lettore a un progressivo rovesciamento delle prospettive. Perché, almeno in principio, la situazione sembra chiara: la presentazione di Alan è impietosa, a tratti crudele. Lui e la moglie, Katie,
erano stati i felici beneficiari di una colossale, ridicola barzelletta raccontata dai soldi [,] avevano fatto le cose da bravi borghesucci […]. Il loro talento? La loro geniale pianificazione? Essere nati nei tardi anni Sessanta e avere trovato lavoro a Londra con uno stipendio decente negli anni Novanta. (pp. 22, 23)
Non c’è merito nella sua arrampicata sociale: un matrimonio conveniente, qualche investimento fortunato, e la sua vita si è persa in un vortice di denaro, superficialità, apparenza. Di contro, Craig, che ha sperimentato sulla sua pelle la caduta e la miseria, sembra essere lo sguardo lucido, colui che riesce a vedere oltre la maschera delle convenzioni sociali:
— Ma davvero ci pappiamo tutta ’sta cazzo di roba? — disse Craig mentre rifletteva su cosa avrebbe pensato il messicano medio, quello che si spazzolava i nachos da quaranta pesos su un furgoncino in un vicolo di Juárez, di un posto fighetto di Londra che ti faceva una versione (probabilmente inferiore) della stessa identica cosa per dieci cazzo di svanziche. (p. 121)
E se la storia sembra prevedibile nel suo sviluppo (nell’inevitabile sovvertimento delle sorti dei protagonisti), questo non invalida la lettura, anzi consente una stratificazione dei significati, e quindi della riflessione critica che il lettore può condurre pagina per pagina. Perché è inevitabile, per chi si avvicina al libro, chiedersi di chi sia l’invidia a cui rimanda il titolo dell’edizione italiana: è forse davvero solo quella di Alan, eterno gregario, che finalmente ha l’occasione di rifarsi approfittando della sfortuna dell’antico leader? O non c’è forse qualcosa di più profondo e sottile, da ricercarsi invece nella posizione di Craig, che è sempre stato – si è sempre sentito – superiore e si trova ora a confrontarsi con il trionfo di qualcuno che non riteneva all’altezza? E ancora, il titolo originale – No Good Deed – vuole farci pensare alle conseguenze, o piuttosto ai moventi, spesso non nobili, delle nostre buone azioni?
Il romanzo è volutamente squilibrato: dopo quella che pare una lunghissima introduzione, i guai per Alan iniziano e si consumano in un arco molto esiguo di pagine, costringendo il lettore a un'immersione in apnea che pare senza fine, mentre la tensione cresce, e con essa il senso di ingiustizia. Non c’è dubbio infatti che, alla lunga, si inizi a parteggiare per chi ha accettato, quali che siano stati i motivi, di accogliere un altro nella propria vita e la vita se l’è vista scippare – e non nel modo più scontato. La presenza di Craig mostra, come una luce al neon, tutte le incrinature e le crepe nella apparente sicurezza dell’amico. Lo fa non tanto con le azioni, quanto attraverso il suo solo esserci, che rimanda a un passato e a dei precisi rapporti di forza che non si possono cancellare del tutto. L’effetto più dirompente di Craig è nella sua capacità sottile – e deliberatamente sfruttata – di far sentire l’altro inadeguato, ancora adolescente.
Anche se in quei quattro mesi non aveva mai dato problemi e se n’era rimasto quasi sempre per conto suo, Alan aveva cominciato a percepire qualche incrinatura nel loro rapporto. Una certa occhiatina, battuta, una certa arietta. Dava da pensare, forse era persino scioccante, scoprire che potesse ancora verificarsi una cosa del genere. Che, sebbene il tempo e la sorte avessero seguito il loro corso e reso entrambi quello che erano, anche se Alan aveva “vinto” di gran lunga il confronto, Craig riuscisse ancora a farlo sentire piccolo e fuori posto. […] Alan sapeva che tutti i soldi e la fama immaginabili non potranno mai riprogrammare il modo in cui ci siamo definiti da ragazzi. […] Alan, sconfortato, si rendeva conto che Craig avrebbe sempre goduto di quel potere su di lui. (p. 165)
Forse allora quello che percepivamo all’inizio non era tanto un giudizio dell’autore su un uomo e su un’intera classe sociale (a cui lui stesso, del resto, appartiene), quanto un riflesso di ciò che quell’uomo pensa di sé, al di là di ogni possibile dimostrazione dei passi effettivamente compiuti rispetto ai lontani trascorsi giovanili. Alan è il castigatore più feroce di se stesso, accetta per vera una posizione subalterna in cui lui stesso finisce per ricollocarsi, anche a distanza di anni, e in questo modo si rende complice di una serie di rovinosi scivoloni:
Sì, adesso ad Alan era tutto chiaro. L’universo stava semplicemente aggiustandosi. Era sempre stato Craig quello dotato di talento. Lui non era altro che uno scribacchino, uno scribacchino a cui era andata di culo […]. Già, lì in mezzo al pubblico, […] gli sembrò che fosse in corso una grande, sacrosanta rettifica. (p. 272)
Di cosa parla, quindi, veramente il romanzo? Non, o almeno non solo, della fortuna e della caducità delle cose. Non certamente di amicizia. La verità la intuisce Vanessa, donna spregiudicata, dalla moralità fluida, che avverte un po’ più delle sue amiche (sicuramente più di Katie) gli elementi dissonanti di una storia che solo apparentemente è “edificante”:
Dietro il pezzo da scrivere sulla forza ammirevole dell’amicizia, ce n’era un altro, diverso e migliore. Uno sulle strane correnti e gli abissi oscuri che si nascondono sotto la superficie di molte amicizie di lunga data, soprattutto quelle che hanno a che fare con drammatici rovesci di fortuna. (p. 198)
Il nuovo romanzo di John Niven, che si rivolge con successo a chi ha già apprezzato le precedenti opere dell’autore (in particolare A volte ritorno e Maschio bianco etero), ma cerca anche di catturare nuove falangi di pubblico grazie a una copertina d’impatto e a un titolo accattivante, parla quindi principalmente della natura umana. La trova sfaccettata, complessa, portata all’egoismo e alla crudeltà, ma anche a slanci di affetto ed empatia, impossibile da definire e da inquadrare, da circoscrivere entro i consueti filtri morali. E in questo quadro, realistico e un po’ amaro, si trova il massimo pregio di un romanzo che, nonostante la sua apparente leggerezza, non dovrebbe essere sottovalutato.
Carolina Pernigo