di Christina Dalcher
Editrice Nord, 2018
Traduzione di Barbara Ronca
pp. 392
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Una ragazza ha tra le mani il romanzo di cui tutti parlano: non ha tempo per leggerlo, è una ricercatrice e ha già troppi articoli scientifici da studiare per dedicarsi alla narrativa. Legge brevemente la quarta di copertina ed esclama: “Una cosa del genere non potrebbe succedere. Mai. Le donne non lo permetterebbero”.
Anche se non è specificato nel testo, il romanzo in questione è probabilmente Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood. E la ragazza che lo ha tra le mani, Jean Mc McClellan, si dovrà presto ricredere. Jean diventerà un’affermata dottoressa in neurolinguistica, si specializzerà nella ricerca di una cura per l’afasia di Wernicke, ma presto perderà il diritto di lavorare, scrivere, leggere e soprattutto parlare. Solo cento parole al giorno sono permesse a lei e a tutte le altre donne – e bambine –, conteggiate in un contatore al polso: a ogni sgarro una scarica elettrica di intensità sempre maggiore ricorda loro che nei nuovi, odiosi, misogini Stati Uniti in cui vivono non c’è spazio per la loro voce. Il racconto dell’ancella è probabilmente il modello con cui Vox di Christina Dalcher si confronta più da vicino, insieme a La fabbrica delle mogli di Levin e a 1984 di Orwell. Come in quest’ultimo, anche il distopico mondo di Jean Mc McClellan è pieno di telecamere, che controllano che le donne facciano solo il loro dovere di mogli e madri sottomesse. E invece, inaspettatamente, Jean dovrà tornare a essere l’eccellente ricercatrice che era prima di questo inferno in cui è costretta a vivere, perché c’è bisogno di lei ai piani alti di Washington: il fratello del Presidente degli USA, dell’uomo che – insieme al governo dei “Puri” – ha cucito le bocche a tutte le donne, ha riportato dei danni nell’area cerebrale di Wernicke e solo un team di esperti, tra cui Jean, può salvarlo. Per tutto il romanzo Jean vivrà in una parentesi, in cui – per lavorare – potrà temporaneamente parlare; ci metterà poco a scoprire che c’è dell’altro in questa improvvisa richiesta di aiuto, e che dietro a fialette e gabbie di scimpanzé si cela un terribile progetto.
L'autrice (www.christinadalcher.com) |
Dopo Stati Uniti, Regno Unito e Germania, Vox di Christina Dalcher esce oggi in Italia, per Editrice Nord. È stato salutato dal Time come “il romanzo del movimento #MeToo”, uno slogan evidentemente semplicistico. Le questioni che tira in ballo Vox sono complesse perché complessi sono gli studi che stanno dietro a questo libro. L’autrice è una ricercatrice in linguistica che “in una vita precedente”, come scrive sul suo sito, si è occupata di fonetica e fonologia (ha scritto una tesi di dottorato sul fenomeno della gorgia toscana) e ha insegnato in diverse università. Questa vita non deve essere stata troppo passata per Dalcher, perché che Vox sia un libro scritto da una ricercatrice si capisce immediatamente. I laboratori, le riviste scientifiche, i ricordi degli anni dell'università fanno da contraltare alla villetta di Washington dove, usando meno parole possibili, Jean cerca di essere una buona moglie per Patrick e una brava madre per i suoi quattro figli, tre maschi esuberanti e una bambina che invece di imparare a parlare impara a stare in silenzio ogni giorno di più.
In questo contesto si sviluppa quello che si può definire un romanzo distopico con un ritmo da thriller e con annessa una storia d’amore. E nonostante il tutto sembri quasi un guazzabuglio, Vox è una prima prova letteraria decisamente riuscita, che si legge tutta d’un fiato – merito anche della traduttrice, Barbara Ronca. Un libro che disturba profondamente e che probabilmente stranisce noi italiani. Perché dalla prospettiva delle donne mutilate e umiliate del mondo di Vox, l’Europa è un’agognata meta. L’Italia, in particolare, rappresenta la destinazione sognata per Jean, lei che – come Dalcher – parla italiano e ha tanti legami con il nostro Paese. E conosce il nostro passaporto probabilmente meglio di tanti italiani:
Lo riconosco all’istante, l’emblema di una stella a cinque punte sovrapposta a una ruota dentata e due rami: uno d’ulivo a simbolizzare la volontà di pace, uno di quercia a simboleggiare la forza.
La copertina del libro nell'edizione britannica |
La pace e la forza costruttiva e protettrice di uno Stato e delle sue istituzioni, Jean le cerca in Italia. No, non siamo passati dalla distopia all’utopia, e tale idealizzazione è pur sempre da inserire in un libro, ricordiamocelo, di fantapolitica. Fantapolitica che, come è proprio al genere, ha tanto di vero. In particolare nel modo in cui il libro descrive il processo di consapevolezza che attraversa chi un tempo aveva minimizzato con ironia o eluso per pigrizia l’avanzare della volgarità, della misoginia e del razzismo. E poi, senza capire come, apre gli occhi su un presente che è molto più nero di quello che si sarebbe mai potuto aspettare. Così, è solo quando ormai è troppo tardi che Jean si rimprovera di non aver letto Il racconto dell'ancella al momento giusto, si rimprovera quelle che sono anche sue personali responsabilità:
Ho iniziato a essere responsabile due decenni fa, la prima volta che non ho votato, la milionesima volta che ho detto a Jackie che ero troppo impegnata per partecipare a una delle sue manifestazioni o per disegnare un cartellone o scrivere ai membri del Congresso.
Ecco, è così che il fanatismo viene combattuto innanzitutto con una graduale ma impietosa presa di coscienza, ed è questa che – più dell’azione nei laboratori, tra siringhe e segreti governativi – fa di Vox un romanzo di protesta.
Serena Alessi
@serealessi