Ci sono notti a Pietroburgo che sono incantevoli, limpide come il cristallo, con un cielo "stellato e sfavillante" che fa da quinta scenica alle paure e ai pensieri degli uomini. Sotto questa cupola cangiante vive un sognatore, un'anima bella che conosce a memoria tutta la città perché cammina, cammina spesso, e sembra che tutto - gli abitanti e anche le case - gli venga incontro chiamandolo per nome. Imprigionato in uno stato di prolungata fantasticheria, il sognatore a volte si ritira nel cantuccio del proprio spirito, al chiuso delle quattro mura della sua abitazione, altre esce alla scoperta del mondo esterno, scivola lungo la Neva o la Fontanka, fino alla Čërnaja Rečka e alle isole, specialmente se è primavera e tutto intorno è una sinfonia di fiori.
Raccontare Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij non è semplice perché è un libro che deve parlare da solo. È come quei sogni che sono vividi nella memoria la mattina dopo ma che a raccontarli ad alta voce perdono intensità. L'impeto e le pulsioni della vita notturna scolorano nel mattino che comincia ed ecco che la realtà prende il loro posto.
Provare a scrivere di questo libro però è, oltre che un atto d'amore verso un maestro della letteratura di tutti i tempi, un tentativo di indagine del sogno come componente fondamentale della vita umana, non come dimensione parallela alla realtà - come a lungo si è creduto - bensì intrecciata a questa in un unico complesso ordito. Solo diciotto anni dopo la morte dell'autore russo, lo scritto di un neurologo austriaco, cominciato proprio con l'interpretazione di un sogno, avrebbe aperto le porte al Novecento cambiando per sempre la percezione della psiche dell'uomo.
Nel 1848 il giovane Dostoevskij pubblica questo "romanzo sentimentale" che ha al centro le avventure di un sognatore durante il periodo delle notti bianche, quando il sole in Russia sembra non tramontare mai. Il protagonista vive nelle opere di Scott e Hoffmann, si nutre degli ideali di Puškin: ha una sensibilità estrema che lo porta a momenti di alto slancio ideale e poi a febbrili cadute nell'angoscia. In una delle sue passeggiate serali incontra sul lungofiume Nasten'ka, una ragazza disperata per amore, quasi una bambina. Nel tempo di quattro notti bianche - che diventa quasi il tempo infinito del suo spirito - accarezza la possibilità di una vita insieme, di un'autorealizzazione nell'amore.
Come sottolinea Giovanna Spendel nell'introduzione alla riedizione Oscar Classici Mondadori, negli anni della pubblicazione di questo racconto Dostoevskij era molto impegnato nella riflessione sul tema del sognatore, l'individuo che incarna gli ideali romantici di Schiller (filosofo e poeta sopra tutti da lui letto e amato): la solitudine, il tentativo di elevare la propria vita a un'opera d'arte, l'inesaudita spinta a un'esistenza completa in cui fantasia e contemplazione si unissero alla realizzazione sociale e familiare. L'autore stesso diceva di appartenere a questa categoria e analizzava in diversi scritti il modo con cui i sognatori potevano integrarsi in una società che cambiava logiche politiche, strutture sociali e valori.
Il sognatore è un romantico che nel proprio intimo, nello spazio dell'io, lotta per una sua utopia. Ma la lotta, per definizione, è struggimento, esaltazione mista a dolore: il personaggio di Dostoevskij prova a realizzarsi nell'amore ma nella realtà si palesa tutta la sua illusione e l'unica strada che lo aspetta è il ritorno al sogno.
In questa altalena di poesia e terrore vive il sognatore e con lui anche il lettore che inizia un viaggio nella sua anima contraddittoria. Quello de Le notti bianche si conferma come uno dei personaggi più in divenire, e insieme più completi, dell'autore, il punto cardinale di uno dei suoi romanzi così "palpitanti di vita", per citare André Gide.
Il bello del libro è che si presenta come una lunga visione, un miraggio in cui siamo immersi, e che i dialoghi non sono alla fine che straordinari monologhi di un unico grande personaggio.
In una notte piena di luce, nella città "più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre", come l'ha chiamata Dostoevskij nelle Memorie dal sottosuolo, un sognatore che parla come un libro scritto ci prende per mano e ci racconta una storia, la storia di un sogno. E i sogni, in certe vite, sono più veri dei giorni.
Edizione di riferimento: Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche (a cura di Giovanna Spendel), Mondadori, 1993.
'Ascoltate, ascoltate!' l'interruppi. 'Perdonatemi se vi dirò ancora qualcosa... Ecco, vedete: domani non potrò non venire qui. Io sono un sognatore; ho vissuto così poco la vita reale che attimi come questi non posso non ripeterli nei sogni. Vi sognerò per tutta la notte, per tutta la settimana, per tutto l'anno. Senz'altro domani ritornerò qui, proprio qui, in questo luogo, e proprio a quest'ora, e sarò felice ricordando l'accaduto. Già questo luogo mi è caro.
E ora so più che mai che ho perduto invano i miei anni migliori. Ora lo so e sento una maggiore sofferenza per la coscienza dell'accaduto, perché Dio stesso vi ha mandato, mio buon angelo, per dirmelo e dimostrarmelo. Ora, seduto accanto a voi, mentre vi parlo, provo paura al pensiero del futuro. Il futuro significa la nuova solitudine, significa ritornare a quella vita immobile e vana, e di che cosa potrò sognare, se nella realtà io sono stato tanto felice vicino a voi. Oh, siate benedetta, cara ragazza, perché non mi avete respinto la prima volta, perché ora posso dire davvero di aver vissuto almeno due sere nella mia vita!
'Rosina!' cantammo insieme, e mancava poco che l'abbracciassi dall'entusiasmo; lei arrossì, come solo lei poteva arrossire, ridendo attraverso le lacrime che, come piccole perle, tremavano fra nere ciglia.
A cura di Claudia Consoli
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