L'uomo di Mosca
di Alberto Cassani
Baldini+Castoldi, 2018
pp. 335
€ 18(cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
«Il bello del passato è che non torna, il brutto è che non passa»: questo l’incipit di L’uomo di Mosca, un incipit che fa presagire a domande sulla storia, sulla politica, sull’importanza di fare politica. Ed effettivamente leggendo il libro numerose sono le riflessioni che l’autore porta a fare sull’ideale politico, su come era vissuto in passato, soprattutto nella provincia italiana e su come oggi è la politica.
Tuttavia non si tratta di un romanzo che parla di politica, piuttosto è una spy story che spazia dal passato al presente.
Abbiamo incontrato l’autore Alberto Cassani per capire, dal suo punto di vista, cosa rappresenta questo libro.
«Il bello del passato è che non torna» (p. 9). Ci spieghi meglio cosa significa per te questa frase?
La frase per intero è: «Il bello del passato è che non torna, il brutto è che non passa. O viceversa». Diciamo che il “viceversa” relativizza l’assertività della sentenza! In ogni caso, il suo senso sta nella inafferabilità del passato, poiché la sua permanenza nel magazzino della memoria è instabile e la sua vera immagine è sfuggente.
Hai parlato molto di Mosca: quando l’hai visitata e, in poche parole, cosa ti ha trasmesso?
Mosca è una città che ho visitato più volte negli ultimi dieci anni. È una città con un “centro storico” (quello attorno al Cremlino) sfavillante e maestoso, circondato da periferie immense simili per tetraggine a quelle di tutte le capitali occidentali. Stelle rosse e falce e martello sopravvivono qua e là accanto all’estetica dei tempi nuovi. In generale, è una città refrattaria al melting pot e con tratti ostici per il comune visitatore: viali di lunghezza e larghezza smisurata, taxi rarefatti, metropolitana in rigoroso cirillico e inglese poco diffuso ovunque.
Nel libro ho trovato una certa inquietudine, quasi una urgenza di fare chiarezza. Nella vita ti definiresti un inquieto?
Sono tendenzialmente ansioso e inquieto. E ciò che è più grave è che queste caratteristiche non accennano a sfumarsi con l’età. In questo io e il protagonista del romanzo siamo piuttosto simili.
Da un punto di vista sociale e politico quali sono stati i tuoi “maestri”?
Direi mio nonno, che dopo aver fatto il partigiano ha consacrato la sua vita alla politica e me ne ha insegnato nobiltà e necessità.
«Bisogno cercare di trasmetterlo di padre in figlio, di nonno in nipote» (p. 333). Cosa ti è stato trasmesso e cosa vorresti trasmettere a tua volta?
Quello che mi è stato trasmesso, oltre al valore della politica cui ho appena accennato, è il senso dell’onestà e del dovere. Sinceramente, in tempi di maestri assenti o incapaci, non so cosa riuscirò a trasmettere io e, con me, la mia generazione.
Tutti i capitoli iniziano con Dove e sono una “sintesi” degli avvenimenti; da cosa deriva questa scelta?
Il “Dove” seguito dalla sintesi in terza persona serviva ovviamente a introdurre all’argomento principale del capitolo, ma anche a mostrare la presenza dell’autore e a distinguerlo dal protagonista, visto che il narratore della vicenda è il protagonista che parla in prima persona: in quel modo l’autore interviene per dare un’architettura e un ordine alle diverse fasi del racconto del protagonista.
Quanto è importante la politica e l’impegno politico nella tua vita attuale? Sei o sei stato attivista?
La politica è stata molto importante (ho fatto l’assessore nella mia città per quasi 15 anni). Oggi vivo, a tratti con disagio a tratti con sollievo, un maggiore disincanto. Il mio romanzo è un modo per farci i conti, con la politica e col disincanto, oltre che col passato e col presente.
Come ti è nato il desiderio di scrivere, hai frequentato corsi di scrittura?
Non ho fatto corsi. Ho sperimentato in solitudine, ascoltando i consigli delle persone più esperte.
Intervista a cura di Elena Sassi
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