Cane e padrone
di Thomas Mann
Newton Compton Editori, 1995
Traduzione di Brunamaria Dal Lago Veneri
pp. 96
Gli animali rappresentano una parte integrante nella nostra vita. È quindi naturale trovare, scorrendo i titoli nelle nostre biblioteche, libri che ci hanno fatto emozionare grazie alla loro storia. Black Beauty di Anna Sewell, tra i primi libri scritti direttamente dal punto di vista di un animale, ci ha insegnato con i pensieri di un cavallo che gli animali, proprio come le persone, meritano di essere felici e amati; Zorba di Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare è il gatto per antonomasia e come tale ha insegnato a tutti i bambini il significato della fedeltà, della dolcezza e del rispetto; Jack London racconta grazie al San Bernardo Buck de Il richiamo della foresta quanto la vita sia irta di difficoltà, ma che la chiave vincente di tutto è la semplicità del godimento della natura; ma forse è il labrador Marley, protagonista dell’autobiografia di John Grogan ad aver commosso migliaia di lettori (e spettatori grazie alla trasposizione cinematografica del 2008), amanti o no dei cani. Un filo lungo decenni, quello che unisce l’uomo agli animali, e che non ha risparmiato nemmeno Thomas Mann, che riesce a dare il meglio della sua perizia narrativa in un breve racconto che ha per protagonista il suo bracco Bauschan.
Nel marzo del 1918 (secondo alcuni documenti epistolari precisamente il 18 marzo 1918) Thomas Mann sta attraversando un periodo di profondo sconforto ideologico e di delusione filosofica. Accantonata la stesura de La montagna incantata già nel 1915, durante il primo conflitto mondiale aveva deciso di dedicarsi alla saggistica storico-speculativa. Il perdurare del conflitto e le ragioni ideologiche alla base dello stesso, tuttavia, non riuscivano a rasserenarlo completamente e per questo, stanco delle tragedie quotidiane, si lasciò attrarre dal richiamo per una materia dal tono più lieve, una commedia (seppur sui generis) che potesse allontanarlo dal tono serioso degli scritti prodotti in quegli anni. Dietro Cane e padrone, quindi, sono ravvisabili premesse ideologico- letterarie, ma soprattutto personali: noto è, infatti, l’amore di Mann per i cani. Già nel 1898 aveva affiancato un cane pietoso al pazzoide del racconto Tobias Mindernichel e in Altezza reale il bellissimo collie Percy è l’indiscusso e indimenticabile protagonista canino della storia. Nel 1918 però Mann sembra volere di più e se dichiara di «voler solo allenare la mano» e di desiderare che non un cane qualunque, ma il suo cane (e quindi, inevitabilmente, anche lui stesso) fosse protagonista primario di una storia, con il suo racconto ci consegna tra le pagine più godibili e originali di tutta la sua produzione.
Bauschan (forma basso-tedesca di Sebastian) è un bracco (ma dalle dubbia purezza) di travolgente simpatia, che succede in casa Mann al già citato Percy, così diverso da lui da sorprendere ogni giorno lo stesso padrone. Mann incontra Bauschan per la prima volta a Bad Tölz, la residenza di campagna presso cui si era trasferito nei difficili anni della guerra, nella cucina di due donne della zona, un cucciolo di sei mesi emaciato, sbilenco e tremante, ma subito in grado con la sua esuberanza di conquistare, prima, i bambini della famiglia, poi Mann stesso, che non riesce a dimenticare l’euforia umoristica e coinvolgente di quell’esserino saltellante. Subito il rapporto tra il cane e il suo capobranco umano diventa una vera e propria simbiosi: quando è lontano dal padrone Bauschan è apatico e sonnecchiante, in attesa anelante del rientro di Mann. È un inequivocabile segnale a suggerire al fedele amico a quattro zampe che piega prenderà la sua giornata: la svolta a destra, porterà il padrone in città, quella a sinistra, invece, sarà il tacito richiamo per la passeggiata e le avventure nei boschi, momenti di gioia pura e totale che rendono a tal punto Bauschan felice da farlo sorridere (come l’autore giura di avergli visto fare più volte).
Buffo, imprevedibile, logicissimo Bauschan. Non accetta richieste assurde e di pura esibizione. È un cane semplice, lui, di campagna, tutto irto alla conquista. E che cerimoniali tra il lamentoso e il feroce quando incontra gli altri cani! Tutte avventure, queste, che intervallano il tacito e intimo rituale che Bauschan scambia con il suo padrone: la ripetizione, quasi magica, del nome, le dolci carezze, i giochi col naso e le risate, ancora quelle, di reciproca tenerezza. Cane e padrone si configura perfettamente come un idillio bucolico, per questo non può mancare il momento in cui, smessi i panni del narratore, Mann indossa quelli del pittore e in qualità di paesaggista descrive i luoghi di queste avventure, sacri a lui e al suo cane. E se il racconto nasce anche come un allontanamento dalla cultura che tanto l’aveva deluso in quegli anni, evocazioni artistiche ritornano in molti passi, dal fischio per richiamare Bauschan che ricorda la Sinfonia incompiuta di Schubert, alle descrizioni degli specchi d’acqua che richiamano le Bucoliche di Virgilio, fino ai cacciatori incontrati nella foresta che rimandano al Guglielmo Tell. Per questo Cane e padrone è una delle migliori produzioni di Mann: non c’è mai segno di già letto in quello che scrive, ma ogni parola è figlia di un genuino amore per la natura, esemplificato nella compagnia dell’amico più fedele al mondo, l’unico in grado di capire con quanta semplicità l’autore entri in comunione con la natura.
In quanto piccolo idillio, il racconto si esaurisce in cinque brevi capitoli e concludendone la lettura si ha la sensazione di tornare alla vita vera dopo una parentesi di fantastica immersione nella dolce e rilassata semplicità della natura, in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio. Lo stesso fa Mann, che conclude la stesura nell’ottobre del 1918, quando anche la Grande Guerra era agli sgoccioli, ritornando alla vita vera de La montagna incantata (che riprenderà a scrivere agli inzi del 1919) e delle Considerazioni di un apocalittico, uscite proprio in quei mesi. Tuttavia la storia di Bauschan resta una creazione unica da inserire tra le proprie letture proprio per quello che è: un delicato insegnamento a non prendere la vita troppo sul serio e lasciare che la semplicità delle piccole cose (un tramonto, una corsa nel fango, il soffio del vento sul viso accaldato) nutra la nostra felicità.
Federica Privitera