Antologia dei tessuti stampati d’Africa
di Anne Grosfilley
A cura di Francina Chiara
Traduzione italiana dal francese di Flore Giordanengo
L’ippocampo, 2018
pp. 262
€ 39,90 (cartaceo)
Chi non conosce il wax, almeno di vista? Chiamati a farlo, saremmo tutti capaci di distinguere a colpo d’occhio questo particolare tessuto anche tra rotoli e rotoli di altre stoffe. Colorato, stampato, carico di brio, il wax ci parla d’Africa in ogni motivo, sfumatura e accostamento cromatico. Eppure, per quanto ci sembri di averlo inquadrato, ciò che ne sappiamo in termini di origine, storia e valore è ancora relativamente poco. Un deficit dovuto a una serie di inconsapevoli pregiudizi e di credenze entrate nel senso comune, e legato a multiplo nodo a una certa idea d’Africa che spesso viene veicolata, o peggio (s)venduta, sul mercato della percezione collettiva. Per chi volesse approfondire l'argomento, la casa editrice L’ippocampo ha appena pubblicato un bellissimo volume che già dal titolo – Wax & Co. – mette in crisi ogni sua comoda versione monolitica, dal momento che questa Antologia dei tessuti stampati d’Africa è l’esatto contrario di un gratificante campionario a scopo commerciale. Il libro di Anne Grosfilley si configura difatti come un albero genealogico, uno studio teso a rivelare l’origine “plurale” e l’evoluzione avvincente di quelle che si farebbe presto a catalogare come pezze colorate, espressione del genius loci del continente nero. Soprattutto perché il dna del wax non è affatto “indigeno”, dal momento che la sua origine, databile alla metà del 1800, non coinvolge solo l’Africa, ma anche l’Europa e l’Asia. E non da ultimo perché la sua sopravvivenza non può prescindere dall’andamento degli equilibri mondiali, in un sincretismo che mette insieme sistemi tanto culturali quanto economici.
A cura di Francina Chiara
Traduzione italiana dal francese di Flore Giordanengo
L’ippocampo, 2018
pp. 262
€ 39,90 (cartaceo)
Chi non conosce il wax, almeno di vista? Chiamati a farlo, saremmo tutti capaci di distinguere a colpo d’occhio questo particolare tessuto anche tra rotoli e rotoli di altre stoffe. Colorato, stampato, carico di brio, il wax ci parla d’Africa in ogni motivo, sfumatura e accostamento cromatico. Eppure, per quanto ci sembri di averlo inquadrato, ciò che ne sappiamo in termini di origine, storia e valore è ancora relativamente poco. Un deficit dovuto a una serie di inconsapevoli pregiudizi e di credenze entrate nel senso comune, e legato a multiplo nodo a una certa idea d’Africa che spesso viene veicolata, o peggio (s)venduta, sul mercato della percezione collettiva. Per chi volesse approfondire l'argomento, la casa editrice L’ippocampo ha appena pubblicato un bellissimo volume che già dal titolo – Wax & Co. – mette in crisi ogni sua comoda versione monolitica, dal momento che questa Antologia dei tessuti stampati d’Africa è l’esatto contrario di un gratificante campionario a scopo commerciale. Il libro di Anne Grosfilley si configura difatti come un albero genealogico, uno studio teso a rivelare l’origine “plurale” e l’evoluzione avvincente di quelle che si farebbe presto a catalogare come pezze colorate, espressione del genius loci del continente nero. Soprattutto perché il dna del wax non è affatto “indigeno”, dal momento che la sua origine, databile alla metà del 1800, non coinvolge solo l’Africa, ma anche l’Europa e l’Asia. E non da ultimo perché la sua sopravvivenza non può prescindere dall’andamento degli equilibri mondiali, in un sincretismo che mette insieme sistemi tanto culturali quanto economici.
Antropologa specializzata nel settore del tessile e della moda africana, Anne Grosfilley non ha trascurato nessun aspetto della vita del wax. A partire dalla genesi, che riporta indietro alla rivoluzione industriale del XIX secolo e che vede alternarsi Inghilterra, Olanda, Indonesia e stati africani in un balletto commerciale e culturale dall’esito sorprendente, in cui il batik asiatico si evolve fino a diventare simbolo unisex di una cultura che vuole affermare un’identità forte, nonché fonte di ispirazione per comuni cittadini, stilisti di ogni nazionalità e addirittura riviste specializzate. La studiosa dedica ampio spazio agli aspetti più pratici, legati alla manifattura, grazie ai quali si comprende come la “cera” che dà il nome al tessuto (questo il significato dell’inglese wax) sia proprio quella che, scaldata e applicata sulle pezze prima della tintura, preserverà in bianco le aree da cui nascerà il disegno. La colorazione, successivamente, darà vita ai wax detti print (il cotone messo semplicemente a bagno nella tinta) e a quelli detti block (in cui il colore viene applicato anche in un secondo momento con dei tamponi di varia forma e dimensione). Ancora, si scopre come la presenza di difetti – asimmetrie dei motivi, sovrapposizioni, e in particolare il cracking, ovvero l’infiltrazione della tinta nelle parti candide a causa della frattura accidentale della cera – sia considerata sinonimo di qualità da parte degli intenditori, in quanto prova di una confezione artigianale; un wax troppo perfetto e troppo a buon mercato sarà, al contrario, un wax scadente, industriale, quando non direttamente contraffatto. L’autrice difatti è prodiga di spiegazioni anche dal punto di vista dei commerci e dei mercati: da una parte la ricaduta economica positiva sui paesi africani, con, a fare da esempio emblematico, l’avventura pionieristica delle cosiddette Na Na Benz, ovvero le commercianti di wax che fecero affari e furore negli anni Ottanta, al punto da essere le prime a potersi permettere delle macchine targate Mercedes; dall’altra, di contro, tutto ciò che la crescente richiesta di wax nel mondo – specie quello della moda di lusso – ha comportato anche in termini di concorrenza sleale e di svalutazione del prodotto finito, innescando una serie di circoli viziosi (legati anche alla percezione stessa della stoffa) a cui non è sufficiente rimediare tramite un rigoroso sistema di selezione e di etichettatura.
Tra le sezioni più affascinanti e suggestive del volume, decisamente appaganti per la vista e la curiosità di chi legge, ci sono quelle che si soffermano sull’analisi dei molteplici motivi che possono essere riportati sulle stampe in sovrapposizione ai giochi grafici che fanno da sfondo. Ciò che colpisce, nella varietà delle occorrenze, è la complessità dei messaggi di cui il capo di vestiario può farsi veicolo, in un mix davvero originale di antiche simbologie e stimoli provenienti dalla cronaca e dalla storia contemporanea: dai caratteri dell’alfabeto che testimoniano gli effetti positivi della scolarizzazione agli intramontabili messaggi d’amore; dalle stilizzazioni floreali e faunistiche alle citazioni palesi dei motivi indiani; dai simboli del lutto agli emblemi di una raggiunta modernità anche tecnologica (con un assortimento di automobili, ventilatori, lampadine, telefonini, macchine fotografiche, radio, microfoni e vasche da bagno a fare bella e orgogliosa mostra di sé sui tessuti). Non mancano nemmeno, alla stregua di quanto accade nel caso delle più occidentali t-shirt, gli omaggi a esponenti politici di spicco: ecco i volti sorridenti dei presidenti africani e di quelli francesi (Jacques Chirac e François Hollande), ma ecco anche la Regina Elisabetta II, Nelson Mandela e Barack Obama.
Wax & Co. è un libro di spiccato protagonismo grafico, un volume di grande formato ma curato nei più piccoli dettagli. Il modo ideale per apprezzarlo è poggiarlo su una superficie la più neutra e sgombra possibile, con la luce naturale di un giornata senza nuvole che arrivi dall’alto a valorizzare ogni foglio. È uno di quei libri che invoglia a seguire i testi con la punta dell’indice e a far scorrere il palmo della mano sulle immagini, come in una carezza di approvazione. Ma oltre la bellezza dell’apparato fotografico e la cura dell’impaginazione – che alterna i capitoli facendo ricorso anche a carta di differente qualità e misura, al punto che l’impressione è quella di più fascicoli interni suddivisi per argomento posti a intervallare le declinazioni di una sezione più ampia, accomunata dalla dicitura Repertorio – il lavoro di Anne Grosfilley è ammirevole soprattutto per la densità dei contenuti e per il fatto di non scadere mai in facili e rassicuranti esotismi. Al contrario: l’autrice problematizza proprio questa possibilità di approccio e, nel fare ciò, disambigua, spiega, argomenta e documenta. Non contenta, correda il tutto con un glossario finale, uno specchietto riassuntivo su come si fabbrica un tessuto wax e una buona bibliografia per ulteriori approfondimenti. Forse, se già ne soffrite in forma acuta o recidivante, Wax & Co. non basterà a ridimensionare il vostro “mal d’Africa”, ma se non altro lo avrete aggravato con un pizzico di dubbio e finanche di polemica in più. Questo volume pubblicato da L’ippocampo è una sorpresa proprio perché sembra un coffe table book, ma tra le righe e nelle righe c’è molto di più rispetto a una mera esibizione folkloristica e in technicolor a tutto vantaggio di uno sguardo occidentale.
Cecilia Mariani
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