di Elif Batuman
Einaudi, 2018
Titolo originale: The Idiot
Traduzione di Martina Testa
pp. 415
€ 21,00 (cartaceo)
€ 10,99 (formato Kindle)
Termino il libro e sul risvolto di copertina leggo: «L'idiota è stato inserito in praticamente tutte le liste dei libri migliori dell'anno, oltre a essere stato finalista al Pulitzer, al Women's Prize for Fiction e ad altri premi».
Accidenti... ma allora io non ho capito proprio niente.
Come mai ho impiegato quasi un mese a finirlo? Perché durante la lettura mi annoiavo? (nonostante sempre la quarta di copertina mi avesse promesso che «è il libro più divertente che potrete leggere quest'anno»). Urge riflettere. Non vorrei passare, io, per l'idiota della situazione. Per giunta, ho scorso velocemente su Internet qualche altro parere di recensori e ho trovato grandi entusiasmi. E io? Perché no?
Mumble, mumble...
Ok, parto dall'inizio. La trama, in sé, è molto semplice: Selin è una ragazza di 18 anni, turco-americana, matricola di Harvard. Siamo nel 1995 e il libro, diviso nelle quattro stagioni, racconta l'esperienza di Selin durante questo fondamentale anno. L'approccio con il mondo universitario, i professori, le lezioni, le compagne di casa, le amiche, simpatiche e scombiccherate (Svetlana su tutte), i primi computer, gli albori di Internet, i primi cellulari, che servivano allora effettivamente per telefonare. Un po' il mio mondo, peraltro, visto che ho frequentato negli stessi anni l'università (non ad Harvard ok, ma a Pavia, però per me, allora, assolutamente sovrapponibili). Sicché il romanzo aveva tutte le premesse per piacermi.
Eppure... eppure fin dalle prime pagine ho sperimentato una certa fatica a seguire il filo, la tendenza, sempre più, frequente, a lasciare che la mente vagasse fuori dal libro, per poi trovarmi a richiamarla e costringerla a tornare alla storia, la palpebra calante e, in fondo, una certa resistenza a proseguire. Non mi era immediatamente chiaro da dove mi arrivasse tutta questa riluttanza... la scrittura è cristallina, piacevole. E allora? Poi mi sono fatta una domanda: mi interessa davvero, in un romanzo, leggere tutto (e sottolineo tutto) quello che capita al protagonista nel corso di una giornata, tutto quello che dice e che ascolta, che sogna, che vede, che fa e che pensa?
La Batuman in questo libro (che risale davvero a quegli anni in cui lei iniziava l'università) attua un'operazione che, per certi versi, si avvicina all'autofiction. Mette sulla pagina (in maniera molto accurata, intendiamoci, per nulla casuale) tutto ciò che capita a Selin nelle varie giornate che si susseguono, non facendo, apparentemente (e sottolineo questo avverbio, poi capirete), una cernita tra avvenimenti rilevanti, quelli che fanno fare passi avanti alla fabula, per intenderci, e quelli che invece rilevanti non sono, ma inanellando tutta una serie di dialoghi, particolari, azioni, racconti di sogni, trame di film... esattamente come potrebbe accadere a ognuno di noi in qualsiasi giornata. Il racconto si stempera e si dilata così in senso meramente orizzontale. Senza una progressione consequenziale.
Ed ecco, il punto è proprio questo: può la memoria episodica trasformarsi in narrazione? O meglio, in questo romanzo l'operazione è riuscita? La mia risposta è: temo di no. Soprattutto visto che questo strumento narrativo viene utilizzato per oltre 400 pagine. E perché no? Perché si perde il filo, si dimenticano tanti particolari narrati nelle pagine precedenti, esattamente come nella vita reale ci scordiamo di tante piccolezze o di frasi dette nei giorni passati, che non hanno alcuna importanza. E che il cervello, selezionando, cestina.
E perché si rischia di non dare la giusta rilevanza a particolari importanti. Che ci sono. E sono quelli che rendono, comunque, L'idiota un esperimento narrativo molto interessante. Per esempio, il tema della difficoltà relazionale. Selin e il suo amore a senso unico, Ivan, uno studente ungherese di matematica, si scambiano molte e-mail, toccando tematiche profondissime (dal significato del linguaggio al libero arbitrio). Belle, importanti, profonde. Quando poi s'incontrano la loro conversazione diventa difficoltosa. E Selin, che proprio idiota non è, se ne accorge. E ci riflette sopra.
Sapevo che avrei dovuto pensare a delle cose da dire a Ivan. Ma da dove dovevano venire queste cose: da fuori della mia testa? (p. 259)
Ed ecco un'anteprima interessante, timidamente via e-mail (che allora sembrava uno strumento rivoluzionario), dei rapporti virtuali, che esploderanno con Facebook, Instagram e tutti gli altri social network.
O ancora la grande tematica, che serpeggia per tutto il libro, del rapporto tra realtà e letteratura: ho contato, e sottolineato, almeno 41 titoli di libri che Selin (o qualcun altro nella storia) sta leggendo. Selin legge, legge sempre. Adora soprattutto gli scrittori russi. E tende a vivere rapporti e situazioni filtrandoli attraverso schemi già sperimentati da qualche personaggio della letteratura. Compresa lei stessa, e il titolo è più che eloquente. Da ciò derivano domande non da poco: che rapporto è insito tra realtà e letteratura? Possiamo trovare nei libri le risposte a ciò che ci capita nella vita reale? Possiamo trarne indicazioni su come vivere i rapporti?
A me non interessava la società, non interessavano i problemi economici della gente dei secoli passati. Volevo sapere cosa significavano veramente i libri. (p. 18)
E la stessa cosa avviene per il linguaggio, altro strumento che Selin utilizza per elaborare la realtà, quasi fosse una griglia di interpretazione: che rapporto ha il linguaggio con il reale? E non è vero che la lingua che parliamo influisce sul nostro modo di elaborare mentalmente la realtà?
Per trovare risposte a tutti i suoi "perché" Selin si iscrive a diversi corsi universitari, di linguistica, di filosofia, di letteratura russa sperando che i professori la illuminino. E qui c'è tutto l'entusiasmo ingenuo di chi, giovanissimo, si affaccia alla realtà e desidera ricevere strumenti per governarla.
Ed è questo un altro aspetto assolutamente positivo del libro: la freschezza che ci butta addosso. Leggendo la storia noi guardiamo il mondo con gli occhi di questa brava ragazza, che non fuma, non beve, aspetta l'amore romantico, legge in continuazione e ha sempre un'aria un po' trasognata. Attraversa i fatti della vita in modo lieve, ingenuo, stupendosi di ogni cosa, leggera, ai limiti del naif. Tutta la seconda parte del libro, che si svolge in un improbabile paesino della campagna ungherese dove Selin (per riuscire a vedere il suo Ivan) passa l'estate a insegnare inglese ai ragazzini, è costruita sullo stupore e sulla meraviglia che ogni piccola cosa suscita in lei, novella Cinderella in un Paese straniero. Capitoli abitati da personaggi che sembrano usciti da un B-movie divertentissimo, dal cacciatore che la tedia, indottrinandola su tutte le possibili pallottole da caccia, alla ragazza scorbutica e strampalata che le fa da traduttrice.
E Ivan, per il quale si è sorbita quelle cinque settimane di «vacanza»? Sarà proprio con lui che Selin avrà il suo primo vero contatto con la realtà, che non è sempre come nei libri. E quando in autunno Selin tornerà all'università, prenderà una decisione importante.
«Dei gesti compiuti in quegli anni, quasi non ve n'è uno che più tardi non vorremmo sopprimere, mentre ciò che invece dovremmo rimpiangere è di non possedere più la spontaneità che ce li faceva compiere. Più tardi si vedono le cose in modo più pratico, pienamente conforme a quello del resto della società, ma l'adolescenza è il solo tempo in cui si sia imparato».
Questa è la frase di Marcel Proust che apre, in esergo, il romanzo. Avrà imparato qualcosa Selin?
La risposta è nella frase finale del libro.
P.S. Ma allora questo romanzo mi è piaciuto o no? Qui ne va della "credibilità" di questa recensione :-)))
Appena terminato il libro, ho tirato un sospiro di sollievo, esecrando il momento in cui avevo deciso di iniziare a leggerlo. Poi ci ripenso e lentamente affiorano tanti pensieri, tante riflessioni: ed ecco che improvvisamente capisco tutto... l'adolescenza, la freschezza, il divertimento, la spontaneità. Il flusso degli eventi che ci vengono raccontati con lo stupore della diciottenne che si affaccia alla vita (e un pensiero antipatico, latente, che dice "non apprezzavi perché questo sguardo non ce l'hai più"... e qui si torna a Proust). E ancora la lingua e la letteratura come ancore nel pelago delle prime esperienze, di vita, d'amore, d'amicizia.
Diavolo di un libro, sei riuscito a far sì che io ti amassi solo dopo averti finito!