A perdifiato
di Mauro Covacich
La nave di Teseo,
2018
pp. 392
€ 13,50 (cartaceo)
Sono tanti, quindici anni, per un libro che non è
(o non è ancora) un classico. È forse coraggiosa la scelta di ristamparlo
all'apice della carriera, quando il pubblico si aspetta qualcosa di nuovo. Ci
si chiede se il testo continui a parlare, ed eventualmente cosa dica, se ci sia chi
lo voglia ascoltare ancora – così com'è, non più giovane. Tutti i dubbi vengono
spazzati via da A perdifiato, che
dissolve le resistenze con la forza di una voce, di una parola, che ha
attraversato indenne il tempo, che porta con sé un messaggio senza età. Meno
cerebrale degli altri libri del Ciclo delle stelle, che aspettiamo a breve –
sempre riediti da La Nave di Teseo –, questo romanzo di Mauro Covacich contiene
già in sé tutti quei nodi tematici e problematici che daranno spessore anche
alle opere successive, che le renderanno complesse, violente,
irrinunciabili.
Protagonista dell’opera è Dario Rensich, un
maratoneta diventato famoso non già per aver vinto, ma per essere arrivato sesto
alla Maratona di New York, primo dopo cinque africani “con le ali ai piedi”. All’inizio del libro lo troviamo in una fase
discendente di carriera: è passato molto dall’ultimo successo professionale e
la Federazione, che lo ha mantenuto nel frattempo, adesso gli sottopone il
conto. Per questo l’uomo viene mandato per sei mesi a Szeged, in Ungheria, per
allenare la squadra giovanile di atletica.
Si tratta per lui del momento peggiore: la
cittadina ungherese è colpita da un disastro ecologico – il fiume Tibisco
avvelenato dal cianuro – e sta per arrivare la chiamata che annuncia a Dario e
alla moglie Maura la possibilità di andare a prendere Fiona, la piccola
haitiana di 9 mesi che stanno cercando di adottare e che li aspetta
all'Istituto Holy Cross di Jacmel. Nel momento in cui marito e moglie
dovrebbero essere quindi più uniti, la sorte li allontana, rimettendo tutto in
discussione: "Entrambi ci rendiamo
conto che sul più bello, la stanchezza ci ha teso un'imboscata" (p. 9).
Eppure sono entrambi sportivi (Maura è stata una sciatrice), sono abituati alla
durezza della vita, alla disciplina, alle regole. Sanno che l’esistenza è come
una gara di discesa: bisogna essere concentrati e attenti perché tutto si gioca
in pochi minuti. Ma Dario è distratto, fragile, quando si allontana da casa.
Il fiume intossicato che lo attende è un presagio
negativo, il veleno che lo inquina una metafora, oltre che del doping, anche e
soprattutto di quello che infetta la sua vita e la sua relazione coniugale. I segnali
peraltro ci sono tutti, preannunciati dall’amico Alberto Lentini che, come
avverrà anche nei romanzi successivi, sembra vedere ogni volta più in là degli
altri: "lì dove vai tu la terra ha
iniziato la fine e chissà cos'è capace di combinare prima di tirare le cuoia"
(p. 17).
Adoperando come di consueto diversi codici comunicativi
(mail, dirette televisive, telefonate), Covacich vuole abbattere il filtro tra
realtà e narrazione, e l'utilizzo di fonti documentarie è uno dei mezzi da
sempre utilizzati dalla letteratura a tale scopo. Ma c'è ben più di questo,
come rivelerà il prosieguo del ciclo: il modo più efficace per ottenere il
risultato sarà per l'autore riversarsi sempre più in prima persona all'interno
dell'opera, in un continuo gioco di specchi. Così, ad esempio, lui potrà
impersonare Rensich e poi se stesso nella performance sul tapis roulant
dedicata all’“umiliazione delle stelle”. Il corpo può così diventare
l’unico luogo di verità laddove le parole, come i personaggi, possono mentire –
e mentono.
Il corpo d’altronde è centrale già da qui, da A perdifiato: il corpo del maratoneta è
domato, trattato, costretto, liberato. Dario è il "manipolatore straniero" (p. 29), giunto in Ungheria per fare
di mezzofondiste diciottenni delle esperte nella corsa lunga ("la trasformazione psicofisica più radicale a
cui una ragazza possa sottoporsi spontaneamente", p. 29). È arrivato
lì per insegnare loro la determinazione, la volontà necessaria a sostenere il
peso della maratona, che è prima di tutto un esercizio mentale, poiché se la
mente è davvero e prima di tutto “il
corpo che pensa”, è nella maratona che questa dispiega la sua massima
forza, la sua incredibile bellezza.
Bisogna osservare però che, nel romanzo di
Covacich, questo stesso corpo è visto sempre in un’ottica ambivalente: il
corpo-meccanismo; il corpo-scienza; il corpo-cannibalizzato del maratoneta; ma
anche, al tempo stesso, il corpo-desiderio, incarnato dalla figura sensuale e
dai movimenti da delfino di Agota. È proprio sul corpo di Agota che si consuma
il dramma di un matrimonio che va in frantumi. L'alternanza continua dei due
piani temporali della storia, quello principale della narrazione e quello delle
"scatole" che hanno portato all'adozione di Fiona, contrappone
efficacemente le procedure, la burocrazia sterile e grottesca, al dramma di una
coppia che si disgrega nel momento in cui dovrebbe mostrarsi più compatta.
Emerge da qui anche il vero punto focale del
testo: la riflessione non già sulla famiglia, sulla paternità, quanto al contrario
quella sulla sterilità. È questo un
motivo ritornante nelle opere dell’autore, sempre discusso nel suo doppio
valore reale e metaforico: troviamo qui la sterilità del terreno riarso che
circonda il Tibisco (definito “un pianeta
secco e smagrito”, su cui non possono che correre corpi altrettanto
secchi), ma anche quella di Dario, che paragona impietosamente i suoi
spermatozoi senza coda a “un'ondata di
storpi e paraplegici [che] strisciava verso il miraggio di una fecondazione”;
in Fiona ci sarà la figura dolorosa
di Lena, che viene descritta arida, sterile, come un posacenere; in alcuni dei
racconti de La sposa la sterilità è autoimposta,
la scelta dei non procreatori di non compiere quel piccolo atto di egoismo che
è il mettere al mondo figli come prosecuzione di sé.
In A
perdifiato, che non è solo un titolo, ma anche una definizione dello stato
del lettore che procede a tappe forzate tra pagine che scorrono inarrestabili, Dario
si gode la sua relazione con Agota, la "Felicità assoluta", non tanto
per l'illusione di essere riuscito davvero a fecondarla, quanto per la certezza
di avere sempre una via di fuga, data dall'impossibilità
di averlo fatto. Allo stesso tempo, questo bambino impossibile è una via di
fuga anche dall'altra vita, dall'altra figlia, dalla consapevolezza (che
lo fa dibattere come un pesce morente sulle rive del fiume) di stare per essere realmente padre. È durissimo il
suo prendere atto che, se ci sono due cicogne in arrivo, bisogna "abbatterne una" (p. 158); o ancora
la sua delusione (umana quanto scorretta, inaccettabile) perché Maura non si
decide a morire, liberandolo una volta per tutti della responsabilità che grava
su di lui.
Covacich è sempre tanto abile a farci parteggiare
per i suoi personaggi femminili – toccanti, pieni di dignità –, quanto a tratteggiare
la meschinità di quelli maschili. In questo caso il ritratto di Dario riesce a
non essere mai caricatura, e vuole anzi essere verità, metterlo a nudo nella
miseria. Perché Dario è un personaggio colpevole,
ma non immorale – a differenza di
Lentini, che rappresenta invece l’ambiguità, la flessibilità etica del
contemporaneo, e che quindi appare come personaggio realmente negativo, perché
alla sua colpa non si associa alcun dramma interiore.
Quando finalmente Dario e Maura andranno, e poi
torneranno da Haiti, al ritorno sarà lui ad essere avvelenato, non più il
Tibisco ("ogni singolo capillare del
mio corpo era irrorato dal cianuro", p. 330). È lui il veleno, lui “l’untore” (p. 368), lui quello in grado
di rovinare, di contaminare, di distruggere.
Nello spazio sottile che si spalanca tra la
realtà e il reale narrativo, Covacich riesce a creare uno spazio di verità e,
ancora una volta, un grande romanzo. Poco importa allora che sia un romanzo che
ritorna, se nel suo tornare porta con sé la densità e l’impeto dell’opera
sempre viva, sempre attuale.
Carolina Pernigo
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