Don't worry
di John Callahan
Garzanti, 2018
trad. Giuseppe Maugeri
pp. 256
€ 18,60
Io lo so che è fastidioso sentir dire “Era meglio il libro”. Un luogo comune fondato sulla sproporzione immaginifica fra le infinite possibilità di una descrizione e la sua traduzione, una delle possibili, necessariamente univoca - tanto palese quanto snob se pronunciato a una cena a casa di amici.
E pensare che stavolta, fra un memoir autobiografico del fumettista statunitense John Callahan e un film di Gus Van Sant con Joaquin Phoenix, almeno sulla carta, non c'era partita, mi ripetevo.
Gust Van Sant, il genio di Elephant, mago della cinepresa, il regista per il quale anche i cinephile di Cannes avevano derogato al regolamento assegnando, per la prima volta e in maniera straordinaria, sia la Palma d'oro che il Premio per la miglior regia nella stessa edizione del Festival, nel 2003.
E dell'ottimo Phoenix, cosa citare? L'interpretazione di Johnny Cash in Walk the line, il commovente cuore solitario innamorato di Her?
E invece mentre Don't worry, il libro, pubblicato da Garzanti all'indomani dell'uscita del film nelle sale italiane, nella traduzione di Giuseppe Maugeri è piacevolmente ironico, trascinante, strampalato e divertente, Don't worry, il film, sconta – mi rendo conto che il gioco di parole è al limite del demenziale – una certa staticità.
Peculiarità del fumettista Callahan, scomparso nel 2010, all'età di 38 anni, era infatti la sua grave disabilità: era rimasto tetraplegico in seguito a un incidente avuto a 21 anni, causato dall'alcol.
John Callahan era in sedia a rotelle, completamente paralizzato dal busto in giù.
Un calvario, quello di ospedali, riabilitazioni, assistenti a domicilio e lotte contro il servizio sanitario americano, che non spense mai la sua verve sarcastica e grottesca ma anzi fu la base di partenza per le sue vignette e soprattutto il motore di una grande trasformazione personale.
Dopo la terapia che gli permise di tornare a impugnare la matita, decise infatti di disintossicarsi dall'alcol, risolvere alcune questioni aperte del passato e iniziare a disegnare, diventando infine un fumettista molto apprezzato soprattutto per il suo umorismo nero, acuminato e scorrettissimo.
Se nel libro però tutto questo percorso viene narrato, in prima persona, con leggerezza, senza facili pietismi, con un'attitudine quasi sprezzante ma senza dubbio molto divertente, il film non riesce a inquadrare perfettamente il personaggio, che rimane – pur bene interpretato – un po' sfuggente e piatto.
Lontano, troppo, da quell'attivista Harvey Milk interpretato da Sean Penn nel film omonimo, che Gus Van Sant aveva saputo tratteggiare con indubitabile maggior forza.
Il racconto appare scollegato, quasi sciatto, nel complesso poco convincente, in perenne bilico fra (un po') di emozione e (un po') di umorismo e (un po') di antiretorica; a tratti, manieristico.
Piuttosto inconsistenti e decisamente fugaci i personaggi di Rooney Mara (la magica, e amata, Annu), Jack Black (l'amico Dexter, con cui ebbe l'incidente dopo una notte brava), Jonah Hill (Donny, il suo “padrino” nel gruppo degli Alcolisti Anonimi).
Le semplificazioni sono sempre pericolose, lo so, ma qui abbiamo davanti, direi, un libro genuinamente divertente e un film - incredibile a dirsi, dato il regista e l'attore principale - noioso.
E no, non ripeterò l'assunto iniziale. Ci siamo capiti.
Giulia Marziali