di Erri De Luca
Feltrinelli, 2018
pp. 122 € 13,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Come un monologo intensissimo si apre il nuovo
scritto di Erri De Luca. Il destinatario della parola è il figlio che lui non
ha mai avuto, un figlio che una madre ha abortito e che lui ora immagina
davanti a sé, già adulto, saltati di colpo gli scivoloni e i balbettii
dell'infanzia. Un figlio nato da un sogno, ispirato a una storia affine: quella
di un falegname che si è creato un figlio di legno. Lui allora se lo fa con la
parola che però, nello stile denso e magmatico dell'autore, finisce per risultare
altrettanto materica. Il padre che parla è stato a sua volta figlio, ma nella mancata procreazione ha interrotto
una ciclicità, una catena dalle scadenze rigidamente prestabilite. È
anche un ladro di tempo, uno che il tempo lo ha consumato invece di esserne
consumato a sua volta.
Sono di epoca antica, piango per un lutto, una salvezza, il ricordo di chi avvisto in sogno. Sono diverse le lacrime tra loro, leggere, accalorate, liete, gravi, inutili. I miei occhi antichi si svegliano prima di giorno, avviano il primo caffè che è ancora notte. Sto parlando da solo? Sto inventando la tua compagnia? L'invento così forte che la realtà non la può pareggiare. La tua presenza basta qui e stasera a fare la mia paternità. (p. 13)
È il mistero dell'essere padri che viene indagato
nel testo, a partire dalla propria esperienza, dai quadri di Chagall
guardati insieme a un genitore "sporadico,
prestigiatore della sua presenza" (ben più assidua, concreta, anche
nella rievocazione, appare invece la madre): "Ogni illustrazione era un posto visitato con lui. È stato prodigioso
avere un padre" (p. 16). Eppure anche da una famiglia amatissima si
può avere il desiderio di andare, per cercare una propria strada nel mondo e
scoprire che "è un vicolo stretto,
la libertà" (p. 20), ma è anche "andare e stare dove non potevo farne a meno" (p. 23).
Quella
di Erri De Luca è una scrittura sinestetica, che sfiora ed evoca rumori, odori,
colori, corpi vivi. Evoca anche dal
silenzio il figlio, che all'improvviso prende la parola, mutando il monologo in
dialogo. Pian piano il mai-nato, il già-cresciuto, acquista spessore. De
Luca gli conferisce personalità, un carattere complesso, un ruolo da vero
comprimario – non da quinta scenografica per le chiacchiere di un padre mancato.
L’autore gli immagina una storia, una somiglianza con la nonna, delle passioni
coltivate ("Tu le somigli, segui i
notiziari, gli approfondimenti. Ti definisco un paesaggista, metti i dettagli a
fuoco", p. 30). Gli attribuisce un carattere migliore del proprio, ne
fa un modello, in un imprevisto rovesciamento dei ruoli educativi. E il
figlio poco alla volta diventa giudice, coscienza: costringe l'autore a stare davanti a se stesso, a guardarsi dentro, a
riflettere sulle proprie mancanze. A volte attacca, con una durezza che è in
realtà voglia di soccorso. Lo mette di fronte al buco che si porta dentro,
di cui lui stesso forse è una dimostrazione, e che le parole – come frasche –
forse non bastano a coprire. Altre volte il non-figlio critica la sua scrittura
("non sai raccontare il ridicolo, un
deficit per un narratore", p. 50), le sue rigidità. Alla
complessità e ai tormenti del padre, egli oppone una vita semplice, naturale:
Avrei scelto veterinaria, sposato una ragazza di campagna. Avremmo allevato api. Avremmo curato tigri. [...] Il mondo è strambo, meraviglioso. (p. 66)
Ho bisogno di voci, di una radio accesa, di vicini che parlano al telefono, litigano, fanno scricchiolare il letto mentre si amano. Voglio bene a questa benedetta specie umana. Averla intorno mi fa sentire vivo. Tu in questa campagna assomigli a una pianta, a una stanza, più che a un uomo. (p.73)
In
un confronto che si fa sempre più serrato, riflessioni di natura autobiografica
si intersecano a quelle più varie sull'arte, la letteratura, la città di Napoli,
il desiderio, il rapporto con Dio, lo statuto della verità, di cui il dialogo
stesso diventa luogo di manifestazione. Abbiamo un'impressione di nudità leggendo, ma una nudità mai impudica, sempre invece
estremamente casta, carica della
profonda consapevolezza di una dignità di fondo dell'essere umano in quando
imperfetto e perfettibile. È totalmente inerme, difeso a fatica soltanto da
una corazza di parole, che il narratore si pone di fronte all’altro: “Non avrei potuto crescerti, bastavo scarso a
me. Avevo una tensione cupa, senza titolo. Passavo da un lavoro di fatica a un
altro” (p. 47). È un’analisi lucida, a tratti sofferta, la sua, che si
riflette nelle parole spesso impietose del figlio: "Non sei un padre. Sei una narrativa. Ascoltarti e sfogliare un
almanacco" (p. 57) L'uomo può azzardare solo definizioni di sé che
rimandano all’incompiutezza: è solo un "Luftmensch", "una persona d'aria, spiantata,
inconsistente. [...] Il mio puntiglio è stato di dare peso, forza di gravità,
alla mia sostanza svaporata" (p. 57). Non è un caso che mentre il padre perde peso, il figlio lo
acquisti: è questo il giro dell'oca, dove un lancio di dadi può rovesciare le
sorti della partita.
In questa operazione, il procedimento della
scrittura viene messo sotto esame:
Riduzione di cosa? Di taglia, di formato? Allora sì, riduco. Ma la vita non ci rimette in grandezza passando da persona a personaggio. La vita si concentra in pagine, si addensa, comprime gli anni in righe, le città in centimetri, eppure la ritrovi. (p. 82)
Ridurre le persone a personaggi non riduce la
loro dignità, né il loro valore di realtà. A
livello di esistenza e radicamento nel mondo, infatti, il personaggio pesa più
dell'autore, in questo libro il figlio più del padre. Ci si inizia
pertanto a chiedere, nello scorrere delle pagine, con chi stia parlando
davvero il narratore. Con l'altro o con se stesso? Nella definizione azzardata,
i due sono "parassiti l'uno
dell'altro" (p. 76) e, nel continuo rimescolamento dei piani
temporali, il romanzo diventa quasi un
testamento letterario, in cui riflettere sulla vita, sulla morte, sulla
letteratura da una prospettiva postuma. L'esistere diventa allora un gioco,
in cui "libertà è stata avere un
dado in pugno con la scelta di lanciarlo o no" (pp. 92-93). L’ultima
lotta si gioca sempre con se stessi, con la limitatezza del proprio corpo, che
nello scrittore – in questo senso avvantaggiato rispetto alla condizione comune
– si spalanca in un ventaglio di possibilità. Accettare questa idea, la
necessità di lasciare spazio ad altri dentro di sé, è frutto di un lungo
percorso di rielaborazione che è il libro stesso. È il figlio che incalza,
sprona, sfida, quasi a rivelare un’inflessibilità dell’autore nei confronti di
se stesso.
Non lo capisco questo tu per tu con il corpo, come se foste in due. È un raddoppio inventato. Sei uno, maledettamente uno soltanto. Dai del tu a te stesso e ci credi pure, non ti accorgi di stare nella tua finzione letteraria. (p. 100)
Eppure la verità che emerge dal testo è che lo
scrittore non è mai uno, ma molti. Che in ogni casella del gioco ha lasciato un
pezzo di sé, e così in ogni personaggio. E che solo per questo è possibile
un'opera come quest'ultima, decisamente più complessa per concetto, contenuti e
stratificazione di significati di quanto non appaia all'inizio.
Carolina
Pernigo