Canzoni
di Francesco Guccini, Gabriella Fenocchio
Bompiani, 2018
pp. 532
€ 20
Riassumere cinquant’anni di carriera musicale in 43 canzoni: è questa l’impresa
di cui Gabriella Fenocchio, docente di lettere in un liceo bolognese (e in
quale altra città, dopo tutto, se non Bologna poteva insegnare?), si fa carico.
Trattare cioè le canzoni di Francesco Guccini come poesie, o meglio: trattare
la discografia di Francesco Guccini come un unico corpus poetico, innalzandolo allo stesso livello di poeti come
Guido Gozzano ed Eugenio Montale, autori a cui il cantautore emiliano ha
gettato costantemente un occhio durante tutto il suo percorso.
Che sia un compito complesso, e non solo difficile, lo possiamo
comprendere da almeno tre fattori.
In primis il fatto che, a differenza della poesia in cui le parole
sono solo scritte, nelle canzoni la musica – il ritmo, la melodia – è indissolubilmente
intrecciata con le parole: il rischio infatti è quello di trasformare l’esegesi
«in qualcosa di simile a “una galleria di cornici senza quadro, una collezione
di portaprofumi di cui sia svaporata l’essenza”» (l’evocativa immagine a cui la
Fenocchio fa riferimento è di Giovanna Gronda, co-curatrice di un Meridiano
sui libretti d’opera di autori italiani dal Sei- al Novecento).
In secundis, il fatto che le composizioni di Guccini sono legate a una
storia che è sia individuale sia collettiva: se è vero infatti che tutte le
narrazioni possono (e dovrebbero) essere inserite all’interno di un
contesto storico-sociale, che dunque racchiude il destino di molti – per restare
in tema di ispirazioni gucciniane, non possiamo leggere The Waste Land di
Eliot senza considerare la situazione politico-esistenziale del
primo Novecento europeo –, è altrettanto vero che moltissime canzoni,
soprattutto quelle della maturità, racchiudono elementi autobiografici, che
dunque vanno scandagliati e non possono essere ignorati per comprenderne appieno
la portata. La domanda fondamentale che bisogna porsi in questi
casi è la seguente: in che modo la vita dell’autore – come duplice elemento
umano, ossia come persona e come artista – si inserisce all’interno dei luoghi
e dei tempi in cui ha vissuto? Ossia, ribaltando e restringendo la questione: che
genere di interprete dei suoi tempi è stato l’uomo, il pensatore e il cantautore
Francesco Guccini? Per fare qualche esempio al tal proposito (fin troppi se ne
potrebbero portare), da Auschwitz (Folk beat n. 1, 1967) e La locomotiva (Radici, 1972) fino a Il testamento di un
pagliaccio (L’ultima Thule,
2012), passando per la metaforica Bisanzio (Metropolis, 1981) e la suburbana Samantha (Parnassius Guccinii, 1993), niente è
cambiato eppure tutto è cambiato: la storia di uno, o comunque di pochi, si lega
a quella di molti, se non di tutti. Consideriamo ancora, lo zio protagonista di Amerigo (Amerigo, 1978): la sua è quella dei migranti
italiani del primo Novecento, o forse ancora di tutti i migranti del mondo, che vedevano nell’America
– ma anche qui possiamo sostituire l’America con un porto di destinazione
qualsiasi, soprattutto se, lavorando di fantasia, consideriamo il “sogno
europeo” di tanti esuli contemporanei) – «il mito che assommava in una
fascinazione indistinta fatti storici proiettati in un orizzonte ideale di
democrazie e libertà e attrazione per il mondo brillante e vagheggiato di
riviste, fumetti, film d’avventura» (p. 135), salvo poi ritrovarsi a pensare a
come «il mito si sgretoli e l’America, di là dalle rappresentazioni fittizie,
si riveli anch’essa il teatro sempre identico della fatica del vivere» (ivi).
Il terzo elemento di difficoltà sta nella considerazione che Guccini,
oltre a essere un prolifico scrittore, è anche un assiduo lettore e ascoltare.
Le sue canzoni sono intrise di citazioni, più o meno esplicite, che attingono a
una tradizione letteraria che spazia da Poliziano a Eliot e Gozzano, da Swift a
Hemingway e Dylan, per non parlare del nichilismo nietzscheano e dell'onnipresente dubbio montaliano (nel vocabolario gucciniano: "può darsi ch'io sbagli").
E qui entra in gioco il valore prettamente filologico di quest’opera, che consente al
lettore di spaziare nel vastissimo territorio della letteratura e scoprirne
anche i più remoti anfratti e le più lontane spelonche.
Questo è dunque un libro audace, che può essere fruito sia dall’ascoltatore
storico di Guccini, il quale può immergersi nelle pagine e scoprire qualche
chicca che non conosceva, sia dal novizio, a cui vengono forniti gli strumenti
(più che) essenziali per comprendere la profondità di questo grande autore
contemporaneo. Un bel libro per tutti.
David Valentini