I giorni dell’abbandono
di Elena Ferrante
edizioni e/o, 2011
pp. 213
€ 9,90 (cartaceo)
È passato ormai diverso tempo, ma ce lo ricordiamo bene, I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante, anche se precede di molto il successo de L’amica geniale. Pubblicato nel 2002, dopo dieci anni di silenzio rispetto all’esordio letterario con L’amore molesto, questo romanzo durissimo è stato finalista al premio Viareggio, e Roberto Faenza ne ha tratto un film con Margherita Buy nei panni di Olga, Luca Zingaretti in quelli di Mario, e Goran Bregović nei panni del vicino musicista (non più Aldo, ma Daniel). Come sempre, però, il lungometraggio non è all’altezza della parola scritta, che si incide – profondamente, impietosamente – nell’anima del lettore – o ancor più della lettrice, che si sente chiamata in causa, sfiorata in punti nevralgici e dolenti di cui ignorava la sensibilità.
Avvalendosi di una struttura circolare facilmente individuabile, il testo si apre con l’irruzione di una dichiarazione d’abbandono nello scenario di un’apparente serenità familiare: una coppia sposata da quindici anni e con due figli, che conduce un’esistenza ordinaria, in cui il sentimento prevalente è la quiete, che viene ripetutamente citata fin dalle prime pagine.
Ad esempio la protagonista, Olga, ci dice che suo marito “era un uomo di sentimenti quieti” (p. 7), legato ai riti familiari; che avevano affrontato una precedente crisi discutendo, “ma quietamente” (p. 10), parlando “con calma e a bassa voce” (p. 11). A questo si aggiunge il fatto che Olga, di origini napoletane, fin dall’adolescenza desidera prendere le distanze dagli atteggiamenti sguaiati e rumorosi della sua famiglia d’origine, e si impone dunque una rigorosa autodisciplina, che la porta “a non avere mai fretta, a non correre” (p. 10), ma soprattutto ad “aspettare con pazienza che ogni emozione implodesse e prendesse la via della voce pacata, custodita in gola per non dare spettacolo di [sé]” (p. 11). Questo stato di pacatezza dominante viene squarciato bruscamente dall’inaspettata e improvvisa dichiarazione del marito, che in un pomeriggio qualunque di aprile annuncia dopo pranzo, con assoluta nonchalance, di voler lasciare la moglie. La quiete perduta verrà recuperata da Olga soltanto alla fine del romanzo, grazie a un incontro, imprevisto eppure intimamente atteso, che riporterà la situazione a uno stato di quiete assimilabile a quello iniziale. Nel mezzo, si assiste a un duplice movimento: una spirale discendente e autodistruttiva in cui, un po’ alla volta, sprofonda suo malgrado la protagonista fino a toccare i punti più bassi e degradati del proprio animo; e, successivamente, una spirale ascendente che si conclude con il ritorno alla normalità.
All’interno della narrazione, demandata al punto di vista di Olga, la figura del marito fedifrago è dipinta in termini fortemente negativi. Mario è pavido, immaturo, egoista, con una netta predisposizione per il vittimismo. Ragiona per luoghi comuni, è spesso sgarbato con gli altri. Mario è quello che si gode la nuova vita con la giovanissima amante senza curarsi della famiglia a casa, che appena può evita il confronto e se ne va quando i toni della discussione si fanno più accesi. Mario è uno che, anche durante il matrimonio, ogni volta che aveva una crisi personale, tirava fuori un generico e misterioso “vuoto di senso” dietro cui nascondersi. Non è un caso se proprio questo – più che il tradimento e l’abbandono – Olga gli rinfaccerà:
“È vero che non mi ami più?”
“Sì”
“Perché? Perché ti ho mentito? Perché ti ho lasciata? Perché ti ho offesa?”
“No. […] Non ti amo più perché, per giustificarti, hai detto che eri caduto nel vuoto, nel vuoto di senso, e non era vero.”
“Lo era”
“No. Ora so cos’è un vuoto di senso e cosa succede se riesci a tornare in superficie. Tu no, non lo sai. Tu al massimo hai lanciato uno sguardo di sotto, ti sei spaventato e hai turato la falla col corpo di Carla” (p. 208).
Lasciata sola sull’orlo dei quarant’anni, incapace di affrontare il proprio dolore, Olga desidera soprattutto non ricadere nello stereotipo della donna abbandonata, non assomigliare alla “poverella” tanto denigrata da sua madre perché “quando non ti sai tenere un uomo perdi tutto” (p. 15), né tantomeno alle “donne spezzate” dell’omonima raccolta di racconti di Simone de Beauvoir, con cui il romanzo della Ferrante ha tanto da spartire, a livello tematico, di riferimenti espliciti, ma anche stilistico. Mentre infatti apertamente dichiara di non voler somigliare alle “donne in frantumi” di quel libro famoso conosciuto durante l’adolescenza, Olga finisce per aderire al modello: i giorni dell’abbandono non sono solo quelli di chi è stato abbandonato, ma anche quelli in cui chi è stato abbandonato si abbandona a sua volta a parti sconosciute di sé, a comportamenti e sentimenti fino a poco prima impensabili. La differenza rispetto all’ipotesto si può ritrovare allora alla forza insperata – nascosta, eppure tenace – con cui Olga, dopo aver attraversato tutte le fasi dell’elaborazione del suo lutto (negazione; rabbia; patteggiamento; depressione; accettazione), riesce a risollevarsi dallo stato di abbrutimento in cui si è quasi persa. Rimarcare questa differenza di sorte era del resto l’obiettivo della Ferrante, come rivelato in un’intervista riportata ne La frantumaglia:
Olga è donna d'oggi che sa di non dover reagire all'abbandono spezzandosi. Nella vita come nella scrittura mi interessa l'effetto di questo sapere nuovo: come agisce, che resistenza oppone, come combatte contro la voglia di morte e si conquista il tempo necessario per imparare a sopportare il dolore, quali stratagemmi o finzioni mette in atto per riaccettare la vita.
Nella descrizione della lenta e rovinosa caduta verso il fondo dell’abisso, Olga mantiene sempre una divisione interna: da un lato non riesce a contrastare i nuovi stati d’animo che si impossessano di lei, dall’altra però resta lucidamente consapevole di quel che le sta capitando. Si osserva dall’esterno, descrive i suoi sintomi e spesso anche se ne spaventa; è pienamente cosciente di doversi opporre alla progressiva degenerazione, all’abbandono, senza però poter fare nulla per frenarsi, soprattutto nella giornata del 4 agosto, il giorno della disgregazione, della frattura della psiche della protagonista, che improvvisamente sente che tutti i nodi che tengono insieme la sua esistenza, il suo corpo, la sua casa sono sul punto di dissolversi (giusto una fila esile di formiche continua a tenerla insieme).
Non è facile, né scontato, recuperare un equilibrio nel momento in cui tutte le certezze vengono meno. Eppure per buona parte del romanzo non ci è simpatica Olga, non riusciamo a essere solidali, velatamente la giudichiamo. Anche noi, nella lettura, siamo chiamati (chiamate) a fare il nostro percorso di accettazione, di riconoscimento di una parte nascosta di noi in questa donna “spezzata”, ma anche rimessa insieme, con fatica, un passo alla volta. La pacificazione interiore di Olga coincide, alla fine, con la nostra pacificazione rispetto al personaggio e alla lettura. Che non lascia inerti, non lascia intatti, e si deve intraprendere con piena consapevolezza, dopo essersi ben armati. Per uscirne, però, come Olga, un poco più forti.
Carolina Pernigo
Social Network