Essere una macchina. Un viaggio attraverso cyborg, utopisti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte
di Mark O' Connell
Adelphi, 2018 (prima ed.)
Traduzione di G. Pannofino
pp. 260
€ 19,00 (cartaceo)
€ 12,99 (epub)
Ho letto To be e machine di Mark O’ Connell in edizione digitale. L’e-book reader esibiva un nugolo di
testi, tutti in ordine come mai tra gli scaffali della libreria materica;
imprimendo l’indice sulla copertina originale emergevano come ripescate
dall’abisso copie anastatiche dell’opera; solleticandola, una pagina annegava e
una, inedita, affiorava. Mai più beffardo fu glossario piratesco applicato al
volume elettronico, che pare provenga da chissà che anfratti senza onde né
tempeste.
«La mutazione non sarà mentale, bensì genetica», si legge ne Le particelle elementari di Michel
Houellebecq. L’essere umano, bizzarra creatura, insieme capace di divorare gli dèi – propone un saggio di
Jan Kott dedicato alla tragedia antica – e dunque di fabbricarne nuovi di zecca, luccicanti al nitore della vita, tutti
di calcoli e algoritmi. Amorali, privi d’ambiguità, inabili alla menzogna: non
possono che dire il vero. «Antica
razza», commenta Houellebecq, quella degli uomini assoggettati al desiderio,
prigionieri ormai della sola pulsione; vivere, compito d’altri; ai padri la
dolce sottomissione alla custodia e alla cura della stirpe. «Gli elementi della
coscienza contemporanea non sono più adatti alla nostra condizione mortale»,
azzarda ancora Houellebecq. La morte non
è che un curioso accidente, una deviazione al pari del malessere. Uomo e
mortale non ritrovano più alcuna coincidenza, neppure per analogia, neppure nel
ricettacolo del corpo; alla finitudine si reagisce con una smorfia di sorpresa.
L’indagine di Mark O’ Connell, Essere una macchina. Un viaggio attraverso cyborg,
utopisti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte,
edita da Adelphi con traduzione di Gianni Pannofino si attarda sul frammentato
territorio del transumanesimo, «intensificazione di una tendenza già insita
nella cultura dominante, ossia nel capitalismo» (p. 19): nessuna possibilità d’eresia,
il proposito è anzi al continuo superamento. «Tutte le storie», esordisce l’autore, «hanno inizio dalla nostra fine:
le inventiamo perché siamo mortali» (p. 13). Allo stesso modo lo psicoanalista Ernest
Becker, nel secondo capitolo del saggio The
denial of death – in italiano per San Paolo Edizioni con traduzione di G. Gastone, ormai
fuori catalogo – annota: «di tutte le cose che muovono l’uomo, una delle
principali è il suo terrore della morte».
Una semantica della fragilità, quella dell’epoca contemporanea, affatto
dedicata alla preservazione della vita. La morte ha valicato il campo
dell’essenza per adagiarsi sull’esistenza; eccola, tiranneggia.
È la morte ad aver incontrato l’abisso oppure l’esistenza a
fregiarsi di un bel paio di trampoli? Possono ormai guerreggiare ad armi pari.
Dove gli dèi potevano tutto, dal governare i mari al far naufragare i
timonieri, dal chiacchierare per arbusti al generare il creato, il paradigma
liberal-transumanista si insidia ai confini della biologia e ne spalanca le
grate. Evasione, più che emancipazione. Aver sostituito un paradigma
scientifico al metafisico permette il pluralizzarsi della ricerca. Non del tutto arbitrarie le prospettive
cultuali dell’intervento biotecnologico. Abbondano a ragione nel saggio di O’
Connell citazioni e allusioni bibliche:
«polvere sei e polvere ritornerai» (p. 16); «nei secoli dei secoli, amen» (p. 20); «liberaci
dal male» (p. 197), solo alcune delle occorrenze. Quando tra i capitoli conclusivi suo
figlio accoglierà con dovuta disperazione la morte naturale cui saranno assoggettati
i genitori, quelli non più lo persuaderanno di tarde venute e nuove
incarnazioni del corpo bensì narrando di un avvenire, più imminente
dell’apocalisse, dove forse nessuno
dovrà più morire. Un surrogato del paradiso, commenta O’ Connell.
Bizzarra metafisica: ha sostituito l’escatologia con il mercato. Una
volta fuori dalla natura non si potrà che esplorare il mondo nuovo. Nessuna distopia ad arginare la narrazione transumanista, sono le
utopie a permettere rivoluzioni; il resto non è che un accidente. Si sostiene
spesso che al culto si sia sostituito il calcolo; all’aura, la replica: eppure il disperato tentativo di annientare la
finitezza non persegue l’utile della vita contro l’ozio sempiterno della morte.
Semplicemente, osserva il secondo in un ordine di mancata conformità al
paradigma di conservazione del primo. Lo slittamento polemizza, riesamina e
infine riassesta prospettive di filosofia della storia. A cosa si è già da
sempre orientati? A una vita eterna: questa.
Tale, l’epica transumanista, gremita di guerrieri ora Don Chisciotte ora
Gengis Khan. Il tentativo di O’ Connell è di tradirne vizi e ideologie,
osservando con la penna del neofita e dell’uomo comune, preoccupato sì della
morte ma non al punto di innestare a un dispositivo meccanico il proprio reticolo
neurale, il suo vitale tramestio. Le pratiche di enhancement -
la cui ambiguità è già denunciata dalla traduzione plurale, ora miglioramento, ora incremento, ora potenziamento
– non intendono far da pròtesi per gambe malandate, mortificate
nell’interpretazione di una gruccia, nient’affatto; esibiscono piuttosto una
tesi fuor di consuetudine dell’ineffabile natura
umana.
Immanuel Kant caldeggiava, in un articolo del 1784 dedicato a La risposta alla domanda: che cos’è
Illuminismo?, un’opera insieme archeologica e fenomenologica di scavo,
dissotterramento e riappropriazione di una prima
natura detronizzata da una seconda,
barbaramente definita stato di minorità. Il
transumanesimo, preoccupato com’è della morte, si contenta della sepoltura dell’antico per la
generazione di una stirpe inedita. Struttura chimica del cervello, strati di
neuroni, codici necessari per tradurre questa attività con una forma compatibile
con l’hardware del computer: il corpo è gettato nella pattumiera. Ancora
allusione religiosa: la seconda venuta è
fuori dalle spoglie mortali.
Leggerà il lettore di Ray Kurzweil, sacerdote
della Singolarità; conoscerà le gesta del Grindhouse Wetware, un collettivo
il cui proposito è «potenziare l’umanità attraverso tecnologie sicure,
accessibili e open source» (p. 150); parteciperà alla traversata dell’Immortality Bus,
scassato caravan ricolmo d’ottimismo alla cui guida Zoltan Istvan, autore di un
romanzo autopubblicato sull’utopica cittadina di Transhumania, percorre le
strade degli Stati Uniti a suffragio del movimento per la longevità. Ambivalente, l’afferenza politica: il terrore della morte sembra la più
vigorosa delle forze trasversali.
Antonio Iannone
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