di Tommaso Pincio
Einaudi, 23 ottobre 2018
pp. 200
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Scopo dell'arte è vampirizzare il mondo. Gli artisti sono il suo esercito di succhia sangue e sognano tutti l'inestinzione. Prendiamo te, per esempio. Hai terminato da poco l'accademia e sogni di fare l'artista, probabilmente il pittore, eppure eccoti qua, giri per Roma, ti rovini le scarpe nella disperata illusione di convincere qualche segretaria a comprare un'inutile macchina da ufficio. (p. 53)
Chiuso tra gli stretti e "odiati muri" del carcere, un uomo si trova a riflettere sulla propria vita, sul dono di saper vivere e sul libro dedicato a Caravaggio che non ha mai davvero scritto, pur sostenendo che «Caravaggio si vende sempre, è la mania del tempo» (p. 98). In un ambiente asfittico dove l'unico interlocutore è qualche volta il proprio - disprezzato - avvocato, l'unico che non lo ha abbandonato, il protagonista ripercorre scorci della propria vita, costellata di illusioni drammaticamente sconvolte dal reale e convertite in frustrazioni. Lui, che sognava un futuro da artista, si ritrova in breve tempo a vendere telefax (oggetti di cui aveva ignorato l'esistenza fino a poco prima) senza avere alcuna capacità di vendere. E lui accetta, non per capacità di adattamento, ma per prematura rassegnazione. Un giorno, per caso, incappa in una galleria d'arte dove il direttore e la segretaria si mostrano interessati all'oggetto e, a sorpresa, gli viene offerto un lavoro: che sia l'inizio di una svolta? Ma come può trasformarsi in venditore d'arte un uomo che fatica a mistificare il reale, a ingigantire i pregi e a entrare pienamente nel gioco di contrattazioni richiesto dal mercato?
È un romanzo pieno di bivi, questo Il dono di saper vivere, tra segni che il protagonista prova a interpretare e che talvolta rifiuta con sprezzo della superstizione umana, ma in cui poi incappa ancora e ancora. D'altra parte,
il tempo non è che l'eterno perpetuarsi di un bivio; unite gli attimi di cui è composta la vita di una persona e avrete la forma del suo destino, una specie di filo che varierà da individuo a individuo, secondo le infinite possibilità dell'esistere, ma che manterrà l'aspetto di un filo spinato, là dove per spine devono intendersi le deviazioni non prese, le possibilità abortite, ciò che poteva essere e non è stato. (pp. 39-40)
Sarebbe forse diventato un artista, se avesse insistito? O uno scrittore? Il progetto di scrivere un'opera su Caravaggio, ipotesi lì per lì campata per aria, provocatoriamente e senza un reale riscontro, diventa un tarlo. In carcere, l'idea di dare voce sulla carta al «Gran Balordo», «un usurpatore d'anime, un omicida, un genio della pittura (l'ordine non è rilevante)» (p. 16) riprende forma, ed ecco che il racconto di una vita viene eroso via via dalle pagine del potenziale libro su Caravaggio. E il narratore è pienamente consapevole di ciò:
Concepire racconti dove il piano della realtà si confonde con quello della finzione è un gioco molto rischioso. A spingerlo troppo oltre, si finisce come niente in uno stato prossimo alla follia in cui i due mondi sembrano sfuggire al controllo del narratore per comunicare tra loro e, come fossero attività pensanti, autonome e mosse da uno scopo preciso quasi malefico, dànno l'impressione di passarsi informazioni di nascosto e scambiarsi i ruoli. (p. 97)
La dimensione meta-narrativa (così come quella meta-artistica) è molto presente: l'io narrante si approfitta della sua libertà di affabulatore capriccioso («Avvocato, lasci che sia io a farle una rivelazione. Chiunque può far di sé uno scrittore», p. 69), sceglie quando risalire al passato per tracciare il percorso della propria inettitudine, senza mai cadere in auto-apologie, quando tornare al presente o lanciarsi in considerazioni universalistiche sull'uomo, sulle ambizioni, sul presente, sulla letteratura, sul mondo dell'arte,...
Il passato è un lusso da proprietari. Non è forse questo che deve fare un libro: non avere pietà di chi legge? (p. 90)
La letteratura, in particolar modo quella romanzesca, non esisterebbe proprio in mancanza dell'impulso di riparare un torto, un'ingiustizia del mondo. Ma qualora il narratore si rendesse conto che a fare il bello e il cattivo tempo nelle sue storie sia l'ossessiva sete di vendetta che non sa dominare, non sarebbe più giusto trarre le dovute conclusioni e prendere atto del proprio fallimento? (p. 106)
Perché il protagonista è in carcere? Quale gesto estremo può averlo condannato a tanti anni di reclusione? La domanda, più che legittima per i lettori, forse porta a una risposta sola: anche lui, come il tanto amato-odiato Caravaggio, non ha avuto il "dono di saper vivere", ed era da sempre destinato a mettersi nei guai e a morire in solitudine. Ma lui è un Caravaggio contemporaneo, che non sarà mitizzato e non lascerà tele preziose. Sarà un Caravaggio inetto, frustrato e solo con le sue domande: lui non ha saputo "far fruttare" il Caravaggio in tante banconote da centomila lire (che non a caso troviamo sulla copertina del romanzo). Lavorare nel campo dell'arte si mescola al bisogno martellante del denaro, perché in una galleria non basta vendere, ma occorre "vendere bene". Ed ecco che allora il protagonista più volte riflette impietosamente sulla propria inadeguatezza come mercante d'arte, schiacciato da aspettative ben oltre il suo livello, incapace di sentirsi a suo agio e di guardarsi allo specchio riconoscendo pienamente sé stesso. L'inetto contemporaneo - sembra suggerire Pincio, attraverso il suo protagonista - è colui che non riesce a guadagnare quanto la società si aspetta da lui, o quando lui stesso si attende, colui che guardando il proprio riflesso allo specchio vede pirandellianamente una maschera che non aderisce bene. Insomma, è l'esatto opposto dell'homo faber di rinascimentale memoria:
Il dono di saper vivere si misura anche da come si resiste alla sciocca tentazione di delegare le proprie scelte a fantomatici segni del destino. (p. 70)
Abbandonarsi ai segni, al caso, lasciare che siano altri a spingerci verso il nostro bivio: questo non è vivere, ma sopravvivere, arrendendosi. Non resta che è aspettare un cambiamento che, ancora una volta, deve arrivare dall'esterno:
E tuttavia devo riconoscere che è così, l'architettura di una vita si fonda sulle attese. (p. 11)
Come ogni opera fortemente composita, che spazia dal romanzo al metaromanzo fino alla saggistica e alla biografia, Il dono di saper vivere si presta a molteplici interpretazioni, nonché a scavi interiori e sul nostro tempo. È in questo perenne movimento tra dentro e fuori, apparenza e realtà, sensi e ragione, che si affronta un raffinato viaggio nell'arte e nella consapevolezza del proprio fallimento, ora condotti ora strattonati ora spinti da un autore estremamente consapevole.
GMGhioni
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