La voce della pietra
di Silvio Raffo
Elliot, 2018
pp. 157
€ 16,50
Due sono i pilastri portanti di questo breve romanzo di Silvio Raffo, edito per la prima volta nel 1996, finalista al Premio Strega l'anno successivo, e ora finalmente ripubblicato da Elliot edizioni: la pietra e il silenzio.
La pietra è il filo conduttore dell'opera, riapparendo continuamente come vera e propria spia testuale: la villa dove la storia è ambientata è denominata "La Rocciosa", è circondata da mura sormontate da statue inquietanti e sorge a margine di un paesino toscano, Vigneti, al cui fianco "la roccia piombava livida e cupa, senza vegetazione, e assomigliava a una immensa lastra di marmo che chiudesse il paese in una stretta gola" (p. 29). Ma due massi sono anche quelli che hanno determinato la morte della Colomba, donna bellissima e fragile, madre amatissima del protagonista, alla cui lapide – dunque un'altra pietra, forse la pietra per eccellenza – il giovane Jakob ha consumato il suo dolore per poi chiudersi in un mutismo deliberato e totale. Come una pietra, ancora una volta, pesa infatti su di lui il senso di colpa per non aver potuto impedire il tragico incidente che l'ha reso orfano.
Il silenzio, secondo motivo centrale all'interno della trama, in contrapposizione alla parola menzognera, è la via della negazione del protagonista; è un silenzio interrotto solo dai mormorii che gli vengono dalla pietra e che lui appunta diligentemente sulle pagine di un quaderno, principale valvola di decompressione, ma anche unico modo apparente per ritrovare un contatto con la madre e soddisfare un obiettivo ambizioso, quasi folle.
Se è vero che la vita non ha senso, il pensiero è proprio il regno dei significati. Gli uomini non capiscono questo: che il pensiero acquista tanta più forza quanto più lo si isola dalla cancrena della vita, dal senso quotidiano. [...] Il segreto è tutto nella scrittura. La realtà puramente astratta del pensiero trova nella scrittura una sorta di compimento: la sua sola forma possibile, il suo modo di essere [...]. Come la pietra ha una voce che trasmette messaggi, così la scrittura ha il potere di indirizzare e plasmare gli eventi cosiddetti reali. (p. 33, 34; corsivo nel testo)
Ma se la parola può plasmare gli eventi, è forse allora possibile che questa modifichi l'ineluttabile, restituendo alla vita chi vi è stato sottratto. Nel lucido delirio di Jakob, nella barriera impenetrabile che va costruendo rispetto al mondo, si insinua però un elemento destabilizzante: Verena, "il Serpente". Verena ha trascorsi tragici, nascosti dietro un presente da infermiera specializzata in ragazzini problematici. Si trova in un momento di stasi esistenziale (conduce tra "noia" e "inerzia" giornate "senza palpiti", p. 16): l'allontanamento dall'Istituto in cui è cresciuta e dove ha lavorato per tutta l'età adulta ha avuto il peso di una "mutilazione", di una "perdita di identità" (p. 24). Si presenta alla Villa spinta da un impulso indefinibile, da una vocazione all'assistenza che la porta a forzare dall'esterno il guscio di ostilità del ragazzo. Eppure le sue motivazioni non sembrano completamente limpide: c'è un qualche nodo irrisolto nel suo passato che deve essere affrontato e che non ha nulla a che vedere con Jakob, un bisogno di radicamento che le può far perdere di vista il vero motivo della sua presenza alla Rocciosa.
C'è, tra la donna e il ragazzo, una incompatibilità profonda di desideri e sentimenti: "Lui rivoleva la madre. [...] Io, che non sapevo cosa fosse una madre, forse non ero in grado di capire fino in fondo" (p. 121). Anche Verena però sente qualcosa: una voce che parla non dalla pietra, ma dalle profondità del suo animo, e le dice di non desistere. La sfida che ne deriverà, una sfida tra due volontà di ferro, tra due opposti deliri di onnipotenza, avrà fino alla fine esito imprevedibile, mantenendo il lettore in uno stato di sospensione, alimentato dall’impressione vaga e inquietante che i personaggi non si muovano sulla base dei loro propri istinti, ma siano in qualche modo eterodiretti da una forza altra, difficile da inquadrare.
Al di là della trama principale, il testo rivela il suo interesse nel portare avanti una riflessione sulla parola e sul potere della scrittura che può essere letta al di fuori della metafora narrativa: "l'atto della scrittura presuppone una modifica del cosiddetto reale, un'incisione sulla trama degli eventi" (p. 109). Attraverso la parola si gioca nel testo il destino dei personaggi, entrambi convinti di poter avere la meglio grazie ad essa. Ma la parola è anche il luogo in cui, più che in ogni altro, si rivela la fragilità di Jakob e Verena, la profondità del loro trauma, la necessità per entrambi di riconoscersi una nuova identità. Nel caso di Jakob, poi, questa è inestricabilmente legata all'amore per la Colomba che, non più possibile in terra, deve trovare nell'illusione (o nell'Eternità) una nuova dimensione.
In quello che appare a tutti gli effetti un romanzo gotico, ma rinnovato da una modernità perturbante e quasi disturbante, Silvio Raffo conduce per mano il lettore verso una sconvolgente conclusione, che richiama alla mente quelle di una maestra del genere come Shirley Jackson. Come quando si inizia uno dei suoi romanzi, infatti, anche in questo caso si giunge in fondo con il fiato sospeso e lo sconcerto dato dall’imprevedibilità. E si constata come l’autore sia riuscito felicemente nella sua impresa.
Carolina Pernigo
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