L'incontro con l'opera di Alessandro Q. Ferrari è stato tanto fulminante quanto casuale. Poco dopo aver incontrato e intervistato Paola Zannoner (qui il frutto di quella chiacchierata), mi sono imbattuta in un suo commento entusiastico relativo a Le ragazze non hanno paura e ne sono stata incuriosita: lo definiva "un romanzo intenso [...] con personaggi indimenticabili". Da questo alla decisione di fidarmi e leggere il libro è passato molto poco; dal momento in cui ho sfogliato le prime pagine a quello in cui ho stropicciato commossa le ultime ancora meno. Perché il testo di Ferrari era forte, commovente, profondamente vero. E i personaggi davvero indimenticabili (trovate qui la recensione). In un periodo in cui il genere young adult è forse uno dei pochi che continua ad attirare lettori numerosi, ma rischia al contempo di disperdersi in una molteplicità di prodotti editoriali letterariamente poco felici, riuscire a scrivere un'opera originale e d'impatto è già di per sé un successo. Ma nel romanzo di Ferrari c'è molto di più: ci sono gli echi dei grandi autori della nostra tradizione, topoi antichi rivisitati con credibilità, un desiderio vivissimo di trasparenza, un grande senso etico. Per saperne di più, ho voluto fare qualche domanda all'autore.
Questo è il tuo primo romanzo, dopo una serie di esperienze professionali diverse. Perché hai scelto il genere young adult, che in questo momento è sicuramente uno dei più fortunati e accattivanti per il pubblico?
Non è stata una decisione razionale, in realtà. Ho iniziato a scrivere questa storia la prima volta nel 2009, molto tempo fa se consideri che la maggioranza delle lettrici e dei lettori ha fra i dodici e i tredici anni. Poi mi sono fermato e ho ripreso solo tre anni fa, ricominciando praticamente da capo. Non avevo idea di quale tipo di libro avrei scritto in quel momento, non sapevo che appartenesse a un genere preciso. Sapevo che avevo una storia da raccontare. Un’avventura, con una banda di ragazze e un ragazzo in mezzo a loro. Volevo che parlasse di amicizia e di morte, perché erano i temi a cui ero più legato in quel momento, perché sono i temi a cui associo quell’età più delle altre. Quando l’ho finito di scrivere è diventato chiaro a me, e ai primi lettori, che era un libro per ragazzi. Solo allora l’ho saputo però. Come se il romanzo avesse scelto per me.
Ci sono altri romanzi contemporanei appartenenti a questo filone che a tuo avviso devono assolutamente essere letti?
Non sono così consapevole dei confini di questo filone, ma posso dirti che ce ne sono molti. Sono rimasto folgorato, per esempio, da L’Arminuta di Donatella di Pietrantonio. Non è considerato un libro per ragazzi o un young adult perché è uscito con Einaudi nella classica edizione bianca che ci fa tanto pensare a libri “da grandi”. Eppure io credo che andrebbe letto dalle ragazze e dai ragazzi, discusso nelle scuole. Non solo per la storia, ma per la capacità tecnica con cui l’autrice ha reso ogni emozione. Per la sintesi a cui è giunta e la precisione con cui piazza le parole all’interno di ogni frase per esprimere chiaramente un concetto. Oltre a quello, usciti in anni non troppo lontani, mi sento di consigliare Cercando Alaska di John Green e soprattutto Goodbye Berlin di Wolfgang Herrndorf. Un’opera inaspettata, che non ha ricevuto in Italia l’attenzione che merita. Ha dentro personaggi indimenticabili. Aggiungo anche un fumetto, uscito pochi anni fa, E la chiamano estate, di Jillian e Mariko Tamaki. Tutte queste opere hanno molto in comune. Così come Le ragazze non hanno paura, a unirle è il filo rosso dell’adolescenza letteraria.
In base a quel che dici nei ringraziamenti, sembrerebbe che alla base della tua narrazione ci sia più di qualche elemento attinto dal reale. Quindi, se si può sapere, da dove "viene" la storia?
Alla base del libro ci sono tantissimi elementi reali. Credo che tutte le scrittrici e gli scrittori mettano pezzi di sé e della propria vita nei loro libri. Eventi, amici, conoscenti, fatti e ricordi. Sono più o meno mascherati, ma se leggi la biografia di Mary Shelley prima di leggere Frankenstein, ritrovi in ogni scelta una specie di eco della sua vita. Stessa cosa, anche se più nascosta e difficile da trovare, ma non per questo meno vera, accade con Harry Potter. Le ragazze non hanno paura è pieno di eco di tante persone che ho conosciuto e luoghi che ho visitato. Castelnero è un insieme dei paesini dove sono stato da piccolo in vacanza, per esempio. Non sono riproduzioni fedeli della realtà, perché non è una cronaca ma un romanzo, sono una versione metaforizzata, filtrata e rimischiata fino a diventare completamente altro. Fino a essere una creazione originale. Per esempio, quando ero alle medie sono stato davvero in una banda di ragazze, abbiamo fatto le avventure insieme, abbiamo corso nei boschi, litigato e fatto la pace. Ma le somiglianze si fermano qui. Per quanto riguarda la trama non viene da nessun ricordo o evento preciso. È accaduta davanti ai miei occhi mentre la scrivevo. Ne sono stato testimone nella mia testa perché quando scrivo di solito metto i personaggi in una situazione e lascio che agiscano. Non decido cosa faranno, ma sto a vedere cosa fanno. Suona un po’ folle, e terrorizzante per la mia editor, ma è così. Naturalmente poi c’è un po’ di mestiere nel mettere in ordine gli eventi, nel costruire la struttura, ma sempre dopo.
Nel leggere il romanzo, io ho visto chiaramente la lezione di Italo Calvino, mi sbaglio? Quali altri maestri influiscono sulla tua scrittura?
Calvino sì, tantissimo. Mi fa piacere che tu lo nomini. Il suo modo di raccontare il reale mi ha sempre influenzato e continua a farlo. Invidio la sua capacità di colpire il lettore in modo preciso, di dire tutto senza sbrodolare, con una leggerezza mai superficiale. In particolare Le città invisibili ha avuto una grande influenza nelle scelte che ho fatto per quanto riguarda il Sottomondo raccontato nelle lettere di Inca. Detto questo, i maestri sono tantissimi. Ogni libro che mi colpisce diventa un maestro, in un certo senso. Ma se devo fare dei nomi, il primo che mi viene in mente è J. D. Salinger. Leggere i suoi libri, Franny e Zooey e Nove racconti ancora di più de Il giovane Holden, mi ha profondamente cambiato. Erano la mia lettura, e rilettura, quotidiana quando andavo all’università. Nel tragitto in treno dal paesino dove abitavo a Milano e ritorno.
A lui aggiungo Fenoglio, Pasolini e Harper Lee. Naturalmente, lo lascio per ultimo apposta, Stephen King. Il corpo, il racconto che si trova nella raccolta Stagioni diverse e che ha ispirato il film Stand by me, è insieme a It il più potente ritratto di quell’età di passaggio fra la fanciullezza e l’adolescenza mai realizzato. Quel momento in cui smetti di volere le favole e desideri la realtà. Quel momento in cui scopri che la morte è reale e gli amici indispensabili. E di quel momento, non a caso, parla anche il mio libro. Mario e Tata, anche se lei è un poco più avanti, vanno da un’età di meraviglia a un’età di creazione. King mi ha insegnato che si deve raccontare quel momento, per quanto breve, perché è lì che diventiamo grandi davvero.
Quella del viaggio agli Inferi per salvare chi si ama è una metafora antica e bellissima, che tu riesci a tradurre narrativamente in un espediente credibile. Come ti è venuta l'idea? Perché questa ultima "missione" è così importante all'interno della storia?
Per me la morte è sempre stata la paura più grande di tutte. Raccontarla è esorcizzarla, portarla a una festa e farla ballare, vivere un’avventura con lei per non concederle di annientarci. Da bambino adoravo le storie che parlavano dei viaggi agli inferi. La Divina Commedia, il mito di Orfeo. Era anche la mia parte preferita dell’Eneide. E ci sono diversi cicli del fumetto Sandman, scritto da Neil Gaiman, che riprendono questo archetipo letterario, in modo più o meno esplicito. Così nel libro ho provato a usare il medesimo espediente narrativo, facendolo però mio. Pensa che la prima, primissima idea per questo libro era espressa nella mia mente con una frase. Una banda di ragazzi che viaggia all’Inferno. E basta. Quindi posso dire che il viaggio agli inferi per riportare indietro chi si ama è il cuore più vero del libro. Almeno per il suo autore. Per Tata e Mario è molto di più. Molto spesso le lettrici e i lettori mi chiedono che significato abbia e io spiego loro che è un rito. Un rituale. Serve a Tata e Mario per superare una perdita, darle un nome e una definizione, incasellarla e accettarla, superarla. Così da non averne più una paura che annienta. Ecco perché è così importante.
La parte del leone, in questo testo, la fanno le ragazze, che sono tutto ciò che il protagonista non è: forti, determinate, coraggiose (nelle azioni come nei sentimenti). Questo, in un momento in cui viene troppo spesso rimessa in dubbio la parità di genere e le donne sono spesso vittime della violenza, è un messaggio molto bello su cui puntare. Per farlo, hai creato dei personaggi femminili molto diversi tra loro, ma tutti ugualmente "vivi". Tu hai avuto qualche modello femminile forte (a livello famigliare, oppure più ampio, storico/letterario) che ti ha guidato o ispirato nel tuo percorso?
Trovo aberrante che la parità di genere sia ancora messa in dubbio, che non sia data per certa e perciò già realizzata in tutti i suoi aspetti. Ma questo pensiero non nasce solamente dalle mie convinzioni culturali e sociali. Sin da piccolo sono stato, un po’ come Mario, un maschio atipico. Che aveva tutte le caratteristiche negative abitualmente, ed erroneamente, affibbiate esclusivamente al genere femminile. Debole, pauroso, indifeso. Allo stesso tempo ho sempre incontrato ragazze che invece avevano le caratteristiche positive abitualmente, ed erroneamente, affibbiate esclusivamente al genere maschile. Forti, coraggiose, audaci. Anche nella mia famiglia ho sempre avuto modelli femminili con queste caratteristiche. Per questo ho sempre considerato i pregiudizi di genere sbagliati e ho sempre saputo che una ragazza può essere forte e un maschio debole. Che se le ragazze non hanno paura, i ragazzi hanno paura. Per me non è solo un messaggio, sono contento che lo sia, ma va oltre l’essere un messaggio perché un messaggio di solito presuppone un’aspirazione speranzosa e a tratti ideale a cambiare la realtà. Ecco, per me non è la realtà che deve cambiare, la realtà è che le ragazze e i ragazzi sono pari, è la percezione della realtà e il pregiudizio che troppe persone si sono costruiti che vanno cambiati. Di ragazze come Tata e Jo e Inca io ne ho incontrate tante, mi hanno ispirato e guidato e continuano a farlo. Sono i miei eroi ed è di loro che voglio raccontare, di loro che voglio si legga.
Pensi che la buona lettura possa ancora influire positivamente sugli adolescenti? In che modo, e andando a sfiorare quali tasti?
Penso di sì e penso che la ragione di questa forza sia nelle caratteristiche proprie del libro. Nessun altro mezzo artistico ti costringe a immergerti così tanto in un mondo altro che è dentro di te, che ha bisogno di te. Come Fantàsia nella La storia infinita, ogni libro ha bisogno di noi, dei nostri pensieri e delle nostre emozioni. Ci spinge a partecipare, sembra che ci stia semplicemente raccontando una storia, invece ci rende creatori di quella stessa storia. Non è possibile leggere un libro, un buon libro, e restare fuori. Appena giriamo la prima pagina si apre una voragine e veniamo inghiottiti. Il libro non si esaurisce in due ore, ci accompagna durante i nostri giorni. Resta con noi, resta aperto, come un portale verso un altro universo. Va completato, va arricchito. Dobbiamo capire le cose che non ci vengono dette e riempire i dettagli lasciati in bianco. Per tutte queste ragioni un libro, un buon libro può influire positivamente sulle adolescenti e sugli adolescenti, accrescendo a dismisura la loro immaginazione. Per quanto riguarda i tasti che permettono questo risultato, ce ne sono molti, ma uno attiva tutti gli altri secondo me. È la sincerità. L’unico modo per parlare alle ragazze e ai ragazzi, di oggi come di ieri, è essere sinceri. Loro vedono la tua menzogna a un chilometro di distanza e non te la perdonano, smettono di fidarsi di te e allora è finita. Non ti ascoltano più. L’unico modo per trasmettere loro ciò che riteniamo giusto trasmettere, è raccontare storie sincere. Che non significa storie reali, ma storie che dicano la verità, non importa se con i draghi, le astronavi o i fantasmi a pois. In fondo anche gli adulti sono così, ma spesso lo dimenticano.
Carolina Pernigo