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#CriticaNera. In esilio dalla vita: "Il superstite" di Massimo Governi

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Il superstite
di Massimo Governi
Edizioni E/O, 2018

pp. 137
€ 14 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


Un uomo, un allevatore di polli, è l’unico superstite di una strage che, quand’era ancora adolescente, ha ucciso in un sol colpo tutta la sua famiglia: madre, padre e fratello. Scampato per caso alla mattanza, dedica la sua esistenza a cercare di trovare il colpevole e liberarsi della colpa che suscita in lui l’essere ancora vivo. Nonostante il dramma, la vita continua e l’uomo si fa una sua famiglia: si sposa e diventa padre di una bambina vivace e intelligente. Ristruttura la casa dove sono morti i suoi cari e cerca di convivere con l’anima lacerata. Ma tutto è inutile: il dolore, il disagio, l’inquietudine bussano alla sua porta ogni giorno della sua vita. Rimasto solo un’altra volta perché la moglie decide di trasferirsi negli Stati Uniti con la figlia, e grazie all’aiuto di un giornalista che si rivela quasi un angelo custode, riesce a trovare il colpevole e a farlo andare in galera. Ma qui subentra un secondo senso di colpa: quello nei confronti dell’assassino. In un caleidoscopico girone infernale della colpa, l’uomo scende nell’abisso della sua stessa anima girando intorno al suo dolore, senza però mai poterlo afferrare e cercare di affrontarlo.

Antonio Manzini ha definito il romanzo di Governi un A sangue freddo italiano. Non nascondo che ciò ha creato in me un iniziale pregiudizio nei confronti de Il superstite. Tuttavia, non appena la lettura è entrata nel vivo, ogni opinione previa si è frantumata contro la rara raffinatezza di questo breve romanzo, che definire noir o thriller è semplicemente riduttivo.

Tra le sue pagine, infatti, si cela una desolata disperazione che è in parte tipica del grande romanzo americano: quello degli spazi infiniti, della solitudine raggelante, del silenzio che si trasforma in inquietudine. E quel protagonista anonimo, l’uomo che alleva polli nel capanno vicino alla sua casa, rende più vicino quel Mid West agricolo che ha riempito tante pagine della letteratura anglo americana. Eppure Governi non scimmietta il romanzo d’oltreoceano, non prende un imprenditore agricolo veneto e gli mette i panni del fattore del Kansas. In quest’uomo schiacciato dalla colpa il lettore si riconosce, si identifica nella sua progressiva alienazione e nella sua disperante solitudine. Condividiamo con lui lo status di superstite che non è lo stesso del sopravvissuto, in quanto dall'esistenza del protagonista è stato cancellato il futuro. Questa forma di alienazione si rifrange nella mancanza di prospettive alla quale la società contemporanea spesso ci condanna. Facciamo nostra la storia narrata di Governi, perché quando alziamo gli occhi dalla pagina ci rendiamo conto di essere intrappolati in una bolla che è l'eterno presente in cui viviamo.

Non deve sorprendere, quindi, che Il superstite sia una storia dal finale circolare o senza fine. Aperta, come aperta è la porta sul passato del protagonista, che sente il peso della sopravvivenza, non come una colpa, ma come una specie di condanna. Si lascia consumare dal dolore e quel dolore di un personaggio di cui non sappiamo neanche il nome lo facciamo nostro: nella solitudine della sua vecchia casa, nel viaggio in America che sancisce il fallimento dell’unico, vero, tentativo di guardare avanti. Il protagonista prova a lasciarsi tutto alle spalle, ma è inesorabilmente legato alla sua storia da un elastico che lo fa tornare indietro: è sospeso in uno spazio-tempo immobile che gli impedisce di avanzare. È in esilio dalla vita. Non c’è futuro in questa storia e il presente è una pozzanghera in cui il protagonista ci trascina. O forse ci sbagliamo, forse la speranza, l’avvenire non è così lontano, basta guardarsi intorno e vedere quel bambino ignaro che nell’ultima pagina gioca con un rametto spezzato.

Alessio Piras