Censimento
di Jesse Ball
traduzione di Guido Calza
NN editore, 2018
pp. 262
€ 18 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
«In certi libri di filosofia ho letto che i fardelli danno la libertà,
e che in un modo o nell’altro siamo tutti in cerca di un fardello adatto.
Finché non lo troviamo, siamo tremendamente impacciati, anzi, riusciamo a
malapena a vivere.» (p. 167)
È difficile dire cosa, in questo libro, sia cornice e cosa immagine:
il memoir, a cui Ball stesso fa riferimento nelle due pagine introduttive quando parla del fratello Abram affetto da sindrome di Down e sul quale gli
«sarebbe piaciuto scrivere un libro» (p. 7), immaginando però che il rapporto
che avrebbe avuto con lui «quando fosse cresciuto, era molto simile al
rapporto fra padre e figlio» (p.8); o forse la favola, la forma che in effetti
la narrazione sembra assumere nel momento in cui le città esplorate dai due
protagonisti perdono i contorni e i nomi, ridotti a lettere dell’alfabeto dalla
A alla Z, cosa che accade anche agli abitanti, spesso identificati con la loro
professione o il loro ruolo in famiglia?
È forse allora più corretto affermare che memoir e favola, intrecciati
come lo yin e lo yang, vanno a costituire un quadro unico, qualcosa che ha a
che fare con l’interno e con l’esterno: le immagini di Jesse e Abram Ball,
fratelli ma, appunto, anche in qualche modo padre e figlio, sono un mix di
ricordi e invenzione letteraria che si svolgono dentro l’autore/protagonista; gli
eventi che avvengono nei territori urbani, rurali e montani, sempre più
rarefatti man mano che si procede verso nord (e, in contemporanea, che si
procede verso l’aggravarsi della malattia del protagonista), sono invece un mix
di invenzione letteraria e considerazioni filosofiche e poetiche.
L’intreccio è inestricabile: a volte il cambio di registro avviene in
diverse pagine, a volte a solo poche righe di distanza. Un bell’esempio è nella
connessione di pagine fra loro distanti ma a mio avviso vicine: «l’espressione
di mio figlio, mentre lo tengo in braccio, è di sradicamento: non sa di essere
fotografato, e pensa che sua madre sia ferma lì a guardarlo» (p. 127). «Ma perché?» si chiede il protagonista. Quaranta pagine prima, però, leggiamo
questo:
Quando mio figlio decide semplicemente di osservare questo o quello, e sguscia fuori da sé per entrare in empatia con l’oggetto osservato – sia questo una ruota panoramica o una tartaruga – io non riesco mai a oppormi, e certamente non ho mai tentato di mutare ciò che costituisce, ai miei occhi, una risorsa fondamentale: la capacità di scoprire, in ogni momento, qualcosa di profondo. (pp. 89-90)
Interno ed esterno, dunque: è quando si sofferma su questo passaggio
che troviamo le pagine più belle, quelle più poetiche. Da una parte la
comprensione del figlio/fratello, costretto a vivere il mondo in un modo che
alla persona “normale” è inaccessibile; dall’altra la comprensione dell’estraneo
incontrato lungo la via il quale, a modo suo, è chiuso nel suo mondo. La
consapevolezza che l’altro, sia esso un bambino affetto da sindrome di Down o una
coppia di sorelle fumettiste, è un cassetto impossibile da aprire se non
ci si accosta con la dovuta pazienza e la necessaria compassione è un’epifania
incredibile, che colpisce il protagonista, l’autore e il lettore.
Pazienza di cui era colma la moglie defunta del protagonista, che
proprio in questo sentimento aveva colto la chiave per quel cassetto
misterioso.
Con nostro figlio faceva un tentativo, poi aspettava di vedere cosa ne veniva fuori, poi ne faceva un altro e aspettava di vedere cosa ne veniva fuori, ripetendo senza mai desistere e offrendogli sempre con entusiasmo un incoraggiamento. Non c’era l’aspettativa che succedesse qualcosa di specifico. Era importante, soprattutto, che lui si sentisse parte di un progetto che ci accomunava – il progetto della nostra vita. Esser parte di questo: non c’era altro che desiderasse di più. In effetti è quello che desidera la maggioranza di noi, non è vero? Perché lui avrebbe dovuto essere diverso? (pp. 164-5)
Imparare l’empatia, dunque, avere la pazienza e la volontà di cogliere
lo sguardo dell’altro, e con esso la sua storia. Tutti hanno una storia da
raccontare, sembra dirci Ball, anche il vecchio rancoroso in attesa della morte
fra le quattro mura della sua casa. Anche un bambino affetto da una sindrome
che gli rende complicato farsi comprendere.
Complicato, sì, ma non impossibile.
David Valentini
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