«Se sai come guardarlo, questo è davvero un bel posto»: "Vincoli", il romanzo d’esordio di Haruf

Vincoli
di Kent Haruf
NN editore, novembre 2018

Traduzione di Fabio Cremonesi

pp. 264
€ 18 (cartaceo)

Tornare a Holt, finalmente. Si può sentire nostalgia per un posto che non si è mai visitato fisicamente, anzi che a dirla tutta non esiste neppure nella realtà? Sì, se è un luogo che abbiamo conosciuto tra le pagine di una storia particolarmente amata, che sembra più vivo e umano di tante città e paesi reali nel mondo là fuori. Kent Haruf, il grande cantore dell’America rurale e dei suoi uomini, compie ancora una volta un piccolo miracolo, riportandoci in Colorado, nell’immaginaria contea di Holt, della sua celebre Trilogia della pianura. Lo fa con questa storia, Vincoli, che è in realtà il suo romanzo d’esordio (1984) e che di Holt e della voce di Haruf è quindi l’origine. Le aspettative riguardo al romanzo, anche in questo caso splendidamente tradotto da Fabio Cremonesi per NN editore, erano molto alte e, diciamolo subito, sono state egregiamente ripagate. Tralasciando il valore affettivo del ritorno a un’ambientazione molto amata, il piacere di “ripercorrere” le vie della contea di Holt, rivedere paesaggi e luoghi che abbiamo imparato a conoscere, Vincoli è già di per sé un romanzo notevole, non privo di difetti e debolezze, ma chiaramente un esordio in cui ben riconoscibili i segni di una scrittura che di lì a poco saprà farsi sempre più unica, matura, capace. Si badi bene, lo stile della narrazione ha ancora poco di quello che diventerà nella Trilogia della pianura, ma un certo sguardo dell’autore sui suoi personaggi e la capacità di rendere reale più del vero quella terra di uomini e donne comuni, sono già evidenti in questo romanzo d’esordio.
Partiamo da qui, dallo sguardo caratteristico dell’autore: Haruf ama i suoi personaggi, non li giudica, ma ci avvicina a loro – o, per meglio dire, nella maggior parte dei casi alla loro sofferenza – con il dovuto rispetto, riuscendo a creare un legame tra noi e loro possibile proprio grazie allo stile narrativo adottato. Laddove la Trilogia era narrata in terza persona (una terza persona, certo, piuttosto partecipe), in Vincoli Haruf non solo sceglie la prima persona ma usa la voce di uno dei personaggi coinvolti nella storia, regalando al lettore una narrazione che diventa così intima, partecipe, soggettiva.
È, come nella più riconoscibile tradizione letteraria statunitense, è il racconto di uomini e donne comuni, di vite semplici che ancora una volta la letteratura sa rendere straordinarie e liriche, generazioni di padri e figli che lottano, cadono, si rialzano: vivono, insomma, forti di quei valori in cui credono disperatamente.
Il centro di questa storia, quindi, non può che essere la famiglia, la quale, per dirla con le parole di Zadie Smith «è sempre un fatto di una certa violenza» (“Feel Free”, Zadie Smith, p. 271 ): per capire la portata della violenza, delle ferite, del dolore, che lega i Roscoe e i vicini Goodnough, Haruf ne ripercorre quasi ottant’anni di vicissitudini familiari, destini intrecciati, solitudini, sentimenti, squarci. A partire dall’arrivo a Holt di Ada e Roy Goodnough, giovani infelici sposi, attirati come tanti altri in quel periodo dalla promessa di terre e prosperità. Dalle montagne dell’Iowa, i due giungono nella pianura sconfinata e polverosa del Colorado, praticamente privi di mezzi – e, nel caso di Ada, di speranza – conquistando a fatica, giorno dopo giorno, un pezzo di terra, di vita. Terre da coltivare, una casa da costruire, due figli che di lì a poco arrivano a incrementare il nucleo familiare e soprattutto, nella visione di Roy, la forza lavoro disponibile. Un giorno via l’altro, scandito dal lavoro massacrante e dalla crudeltà del capofamiglia, che non risparmia nessuno. Ada, troppo debole nel corpo e nello spirito per resistere, è la prima ad andarsene, i figli ancora adolescenti.
Però adesso è di lei, Ada, che voglio parlarti. Ho già detto che questo posto l’aveva traumatizzata; che era stata costretta a vivere sotto un telone per mesi dopo aver passato tre o quattro settimane su un carro; che, magra com’era, ogni giorno aveva dovuto trasportare per un chilometro un bastone con due secchi d’acqua finché suo marito non aveva trovato il tempo di scavare un pozzo. Non era fatta per una vita di quel tipo. E se anche lo fosse stata, aveva sposato un uomo come Roy Goodnough. Era vincolata per legge a un pezzo di legno di pecan. (p. 32)
Non c’è spazio per le lacrime, naturalmente, nella famiglia Goodnough, non c’è tempo per il riposo: tutte le responsabilità della madre passano in mano a Edith, la morsa di quel padre crudele sempre più stretta.
Ad appena un chilometro da quella casa di legno, ci sono una vita, una famiglia, molto diverse, una realtà non perfetta, ma senza dubbio più tollerabile, quella dei Roscoe, John e sua madre, rimasti soli a cavarsela dopo la fuga del padre. I destini delle due famiglie si intrecciano fin da principio, in un legame che muta, si salda e poi si allenta, per poi ritrovarsi in forme inaspettate, lungo tutto l’arco della storia narrata. Ed è appunto Sanders, il figlio di John, a raccontare, come si accennava poc’anzi, questa storia. 
Questa storia, che nelle sue parole inizia nel 1977, in una stanza dell’ospedale di Holt, dove una piccola donna di ottant’anni giace in un letto, sorvegliata come una criminale:
Edith Goodnough non vive più in campagna. Ormai sta in città, in ospedale, in quel letto bianco, con un ago infilato nel dorso della mano e un uomo che la sorveglia in corridoio, fuori dalla sua stanza. Questa settimana compie ottant’anni: una donna linda, bella, con i capelli bianchi, che in vita sua non è mai arrivata a pesare cinquanta chili e da Capodanno pesa ancora meno di così. (p. 7) 
Un incipit folgorante. È presto evidente che la storia narrata da Sandy, dei Roscoe e dei Goodnough è, in fondo, la storia di Edith. Siamo abituati a considerare Haruf il poeta dell’America rurale, di uomini di poche parole, nelle cui vite poco spazio è concesso al sentimento, alla bellezza; un mondo di uomini, dove i personaggi femminili spesso restano sullo sfondo. Eppure, chi ha amato la Trilogia lo sa bene: in quei rari ritratti di donne, l’autore compie ancora una volta un piccolo miracolo, riuscendo a restituirne tutta la bellezza, la forza, il cuore, come una luce nel buio più oscuro. Lo stesso accade qui, con Edith e ciò che di lei ci racconta attraverso la voce di Sandy. Lei, succube di quel padre irascibile, crudele, ruvido «come un pezzo di legno pecan» appunto, dal cui controllo sembra impossibile sfuggire. Edith, giovane e bella, un buon cuore e un cervello vivace, ma privata di tutto: ogni diritto, ogni sogno, ogni illusione di felicità. Per un attimo, un attimo soltanto, Edith è giovane e la felicità sembra possibile accanto a quel ragazzo che conosce da tutta la vita:
Ti faceva venire voglia di averla accanto a te in macchina su una strada di campagna, di stringerla, abbracciarla, baciarla, sentire l’odore dei suoi capelli, parlarle, dirle tutte quelle cose che non avevi mai detto a nessuno, tutte quelle cose che stanno oltre le battute e gli aspetti superficiali che gli altri vedono di te, cose che tu stesso non sapevi con certezza di provare o pensare finché non ti sei ritrovato a dirgliele mentre la abbracciavi al buio, nella macchina ferma, perché chissà come era giusto che lei le sapesse e in quel modo sarebbero diventate vere. (p. 62)
Ma non c’è spazio, in questa storia, in quelle vite, per la felicità. Dovere e sacrificio, sono tutto ciò che Edith conosce. Saranno tante, troppe, le prove che affronterà, davanti alle quali ogni volta ci faremo un po’ più partecipi, arrabbiati, tristi, perché in fondo vorresti solo abbracciarla questa donna piccola, mentirle, magari, cercando di rassicurarla che andrà tutto bene, anche quando sai che probabilmente non sarà così.
Ma non è giusto.
E lui mi rispose: Certo che non è giusto. Niente in questa faccenda è giusto. La vita non lo è. E tutti i nostri pensieri su come dovrebbe essere non servono a un cavolo, a quanto pare. Tanto vale che tu lo sappia subito. (p. 129)
Proveremo rabbia, a tratti, di fronte al destino, ad Haruf, che si accanisce contro di lei, o, ancor di più, al suo assurdo senso del dovere, del sacrificio, dell’obbedienza totale che sfocia nell’annullamento di sé, dei propri desideri. Siamo cresciuti credendo nel nostro diritto alla felicità: non è sicuro riusciremo a raggiungerla appieno, ma nessuno ci ha mai detto che è un privilegio poterci provare. Ecco perché il personaggio di Edith provoca tanta rabbia a tratti, quel suo modo di accettare angherie, di rinunciare a sé stessa, è così lontano dal nostro – o, perlomeno, dal mio – modo di concepire la vita che non possiamo comprenderlo fino in fondo.
Non era in grado di fare le cose davvero importanti. Era fregato, sistemato. Adesso dipendeva dagli altri, cosa che odiava.
Ma se il loro padre era sistemato, Edith e Lyman erano messi anche peggio. Rimasero intrappolati in quella fattoria in mezzo alla sabbia. Come avrebbero potuto lasciarlo in quelle condizioni? Non potevano farlo. Non in quelle condizioni, non potevano proprio. Fu l’inferno per tutti. Erano sistemati tutti quanti. (p. 54)
Tutto quello che noi possiamo fare è seguire Haruf e la voce di Sanders, che ci guidano in quel microcosmo di uomini e donne che non hanno nulla di speciale o straordinario, nessun talento o tratto fuori dal comune, nessun sogno irraggiungibile: sono solo esseri umani, imperfetti, reali.
E se, come si diceva, l’esordio di Haruf presenta qualche incertezza e una voce che sta andando definendosi, egli dimostra già di essere l’erede di quei cantori dell’America rurale che affonda le radici nella tradizione letteraria del Midwest. La narrazione non è ancora essenziale, la parola misurata e puntuale come nei romanzi che verranno, ci sono qui e là brani che, visti in prospettiva, risultano di troppo ai fini del ritmo e della narrazione. È innegabile, tuttavia, la forza narrativa di questo esordio, che va oltre, come accennavo in apertura, il legame affettivo con i romanzi successivi.
Il rischio, per noi lettori italiani di Haruf, era anche questo, apprezzare il romanzo semplicemente perché legato all’amata Trilogia della pianura: un pericolo, a mio parere, scongiurato, perché Vincoli si regge da solo, con tutti i limiti e le debolezze di un romanzo d’esordio ma senza dubbio notevole.
Dovere, rinuncia, rabbia e violenza, ingiustizia e crudeltà. Eppure, anche sentimenti, legami che trascendono il tempo e lo spazio, famiglia e speranza, piccole gioie fugaci ma pur sempre felicità. La vita, il mondo degli uomini e delle donne in quell’America rurale che è il centro del mondo di Haruf.

Debora Lambruschini