Io odio internet,
di Jarett Kobek
Traduzione di Enrica Budetta
Fazi, 2018
pp. 332
€18 (cartaceo)
€11,99 (ebook)
Jack Kirby è il protagonista di questo romanzo anche perché questo non è un bel romanzo. È un libro estremamente confuso con un protagonista che non compare mai. La trama, come la vita, non porta a nulla e tratta di sofferenze emotive che non hanno nessun significato.
Dietro questa recensione c’è una gigantesca premessa. Attualmente lavoro come Social Media Manager per una multinazionale americana che opera in ambito B2B nel settore delle telecomunicazioni e del networking. Sono arrivata a ricoprire questa posizione un po’ per caso e un po’ per necessità, dopo aver messo da parte il/i lavoro/i dei miei sogni e cambiando il ritratto della me che immaginavo durante gli studi universitari. Da topo da biblioteca in maglione di lana e occhiali dal fondo spesso o editor in costante dialogo con gli autori del panorama letterario nazionale, a silenziosa creatrice di comunicazione attraverso i social network, gestendo quelle piattaforme che tanto ho odiato e aborrito per buona parte della mia esistenza.
Comprenderete quindi facilmente come Io odio internet di Jarett Kobek non abbia per me rappresentato una sfida facile. Da un lato, già dal titolo si configurava come l’esegesi dei miei continui pensieri, dall’altro non volevo imbarcarmi nella lettura di qualcosa che potesse alimentare negativamente le sensazioni che ho seppellito sotto ore di lavoro sui social network a discapito della mia serenità mentale e professionale. Perché imbarcarsi in questa impresa, mi sono detta. Jarett Kobek mi ha invece stupita con un romanzo/saggio/pamphlet divertente e dall’ironia così travolgente da far dimenticare, a tratti, l’amarezza provata per buona parte della lettura.
Ma procediamo con ordine.
Adeline, quarantenne bianca, (cioè «senza un briciolo di eumelanina nello strato basale dell’epidermide») nata in una famiglia benestante di Los Angeles, è una disegnatrice di fumetti, diventata famosa negli anni Novanta grazie a Trill, la storia di un gatto antropomorfo creata insieme al collega * (che invece ha «un sacco di eumelanina nello strato basale dell’epidermide»). Un giorno, invitata a tenere un conferenza all’Università di San Francisco dove insegna un caro amico, compie «l’unico peccato imperdonabile del ventunesimo secolo», ossia non rendersi conto di essere ripresa nell'atto di esprimere le proprie opinioni, dicendo che se scarichi libri, film o musica stai rubando e che dietro agli idoli venerati dalle nuove generazioni, come Beyoncé o Rihanna, non c’è nulla di rivoluzionario, ma solo una quantità enorme di falsità voluta a tavolino. Ovvietà. Ma dal momento che «Adeline 1) è una donna in una cultura che odia
le donne, 2) è semifamosa e 3) ha espresso un’opinione poco popolare», le sue opinioni le valgono email come questa: «Ciao troia, spero che tu venga violentata da una banda di immigrati clandestini sifilitici».
Normale amministrazione, scrive Jarett Kobek, americano di origini turche già autore di una biografia immaginaria del terrorista Mohammed Atta, perché internet è «un posto in cui sistemi complessi davano ai malati di mente le stesse piattaforme di espressione che davano ai membri sani della società, senza nessun riguardo per i danni che causavano a se stessi e agli altri». Anche queste, ovvietà. Basta un rapido giro su Facebook o Twitter per imbattersi nella signora che dà della storpia alla miss amputata o in ultras no-vax tanto preoccupati per la salute dei figli quanto lesti ad augurare la morte a quelli che non la pensano come loro.
L’originalità è che Kobek spiega, meglio di tanti saggi, che il fango non è un danno collaterale del sistema. È il sistema:
Progettato con il solo scopo di massimizzare la quantità di cazzate che la gente digita sui propri computer e telefoni. Maggiore è l’interconnettività, maggiori sono i profitti. [...] Twitter, però, era soltanto il sintomo. La malattia era Internet. Internet era un mezzo eccellente per distribuire pornografia infantile, referti autoptici rubati e copie piratate di film dell’orrore europei degli anni Settanta.
Il suo romanzo utile è un fiume in piena di ironia violenta e ossessiva, al limite tra saggistica e invettiva spinta. Lo stile è quello della rete, che vomita tutto senza curarsi di stile, punteggiatura e, talvolta, chiarezza espositiva. L’autore, così come nei migliori scontri tra haters, tocca un argomento, per poi aprire digressioni su digressioni tra i diversi temi oggetto di analisi. Ma se con questa pratica abbiamo, online, l’emblematica rappresentazione dell’analfabetismo funzionale, in questo caso si ravvisa una profondità critica eccellente, un occhio attento al mondo che ci circonda analizzato al vetriolo e sbugiardato senza pietà. E come è ovvio, le sue non sono tesi obiettive o scientificamente orientate. La passione che anima i suoi ideali è palpabile in ogni parola, così come deve essere. Una passione e una competenza talmente travolgenti da risultare criptiche, spesso, ai non addetti ai lavori o ai non informati di cinema e cultura, che non riuscirebbero a cogliere i riferimenti al mondo dei fumetti di Jack Kirby, alle costruzioni mastodontiche del Marvel Cinematic Unverse o ai messaggi di Zadie Smith.
Io odio internet è, purtroppo o per fortuna, un romanzo saggistico per specialisti, che muove l’indignazione che cova dentro di noi e a cui spesso non riusciamo a dar voce. E per trovare una risposta costruttiva dopo la demolizione totale del mondo contemporaneo operata da Kobek bisogna scavare tra le macerie delle sue parole, eliminare le ridondanze e il superfluo, l’ammiccamento parodistico allo stile di David Foster Wallace e George Saunders e capire che se «l’effetto delle parole di persone senza potere su Internet era infliggere infelicità ad altre persone senza potere» in un luogo in cui «una bugia era potente quanto una verità», l’unica salvezza e garanzia di felicità è quella di non servirsi dei Social Network e limitare l’uso di internet allo stretto indispensabile.
Anacronistico? Forse. Quel che certo è che se si perseguisse in massa questa scelta, io rimarrei disoccupata e voi non potreste leggere i miei pensieri su questo libro. Ai posteri l’ardua sentenza, diceva il maestro Manzoni. Dal canto nostro proviamo a impegnarci per usare questi mezzi al servizio del bene e del bello.
Federica Privitera