Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013
di Philip Roth
Einaudi, 23 ottobre 2018
Traduzione di Norman Gobetti
pp. 458
€ 22 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
«Scrivere per me è stata una lotta per la sopravvivenza. A salvarmi la vita è stata l'ostinazione, non il talento. Ho avuto la fortuna di non essere interessato alla felicità e di non provare alcuna compassione per me stesso. Tuttavia, perché mi sia dovuto imbarcare in una tale impresa non so proprio dirlo. Forse scrivere mi ha protetto da minacce ancora più terribili». (p. 413)
«Eccomi qui, senza i travestimenti, le invenzioni e gli artifici del romanzo»: Philip Roth nella prefazione al suo Perché scrivere? introduce ai trentasette testi che compongono questa preziosissima raccolta, assemblata dall'autore stesso. Non c'è lettore di Roth che non trovi qui risposta a tante delle sue domande: tra saggi di letteratura, interviste, conversazioni con colleghi scrittori e sulle loro opere, interventi di critica, auto-apologie sulle opere del passato, emerge tutto Roth. Il suo carattere deciso e fiero; l'avversione per le accuse di antisemitismo e misoginia dei suoi libri; la volontà di affrancarsi dai suoi personaggi, senza mai disconoscerli; il potere attrattivo della letteratura, che lo ha allontanato dalla vita pubblica, d'altra parte mai nemmeno desiderata: questi sono solo alcuni dei tanti aspetti che affiorano e portano il lettore a riflettere, ancora una volta, sulla grandezza di Philip Roth, e a desiderare di (ri)leggere le sue opere.
Anche mentre sfilano Kafka, Bellow, Malamoud, Mailer e molti altri sotto l'occhio attento di Roth-lettore, la penna e l'acume critico di Roth-scrittore rilucono: non possiamo fare a meno di riconoscerlo, anche nelle conversazioni con intellettuali e scrittori del calibro di Primo Levi, Aahron Appelfeld, Milan Kundera, Edna O'Brien, per fare solo alcuni dei grandi nomi che si siedono con Philip Roth e condividono note sulla loro scrittura, sui contenuti e, più in generale, riflessioni sulla propria concezione della letteratura e su scelte di vita non sempre facili da comprendere. In queste pagine, lo scambio intellettuale è pari: c'è confronto, mai prevaricazione; sana e rispettosa curiosità reciproca, mai indagine rapace, incalzante e quindi eccessiva. È l'atmosfera rilassata di chi condivide, produttivamente, le bizzarrie della propria creatività.
Che dire poi delle folgoranti note metaletterarie che Roth dedica alle proprie opere? Sono forse queste le pagine più ghiotte per i lettori affezionati. Al centro di tanti interventi torna il suo Lamento di Portnoy, che non ha mai smesso di sconvolgere il pubblico; ma vi rintoccano tanti successi in ordine sparso, ripresi anche a distanza di anni, come Pastorale americana, L'animale morente, Indignazione, Nemesi, Goodbye, Columbus e Il complotto contro l'America, per citare solo alcuni dei suoi ventisette romanzi. La letteratura americana del ventesimo secolo ha sempre lottato per rendere «credibile la realtà americana», perché è
«una realtà che sconcerta, disgusta, manda in bestia, ed è anche motivo di imbarazzo per la nostra scarsa immaginazione. L'attualità si fa beffe del nostro talento, e ogni giorno saltano fuori figure che sarebbero l'invidia di qualunque romanziere». (p. 29)
Eppure, se i sentimenti di «meraviglia e ammirato stupore (com'è possibile? è veramente così), nonché di disgusto e di disperazione» (p. 30) si appropriano spesso dello scrittore americano, sconfortato da tanta macabra e delirante cronaca, il richiamo al realismo non viene mai meno. È dalla realtà quotidiana che muovono i suoi libri, che affondano nella società americana e ne studiano le fibre più nascoste, i tarli, le ossessioni. Il richiamo, perenne, è quello di un «io inviolabile, potente e temerario, l'io immaginato come l'unica cosa reale in un ambiente che sembra irreale» (p. 42). Un io che, in ogni caso, non va erroneamente confuso con una confessione autobiografica: semmai il legame alle proprie radici è sottoposto sempre a un «esame scrupoloso» (p. 118), mai si tratta di una placida e immediata osmosi. Roth lotta spesso per affrancarsi da falsi e facili accostamenti fatti dai critici: lui non è i suoi personaggi, né fa dire a loro parole che non trova il coraggio di pronunciare (come spesso si è sentito dire con Lo scrittore fantasma, ad esempio):
«Chiunque cerchi di rintracciare il pensiero dello scrittore nelle parole e nei pensieri dei suoi personaggi sta cercando nel posto sbagliato. Andare a caccia delle "idee" di uno scrittore significa far violenza alla ricchezza e alla molteplicità che sono il tratto distintivo del romanzo.
Le idee del romanziere non stanno nelle opinioni espresse dei suoi personaggi, o nelle loro introspezioni, ma nella situazione che ha inventato per loro, nella giustapposizione dei diversi personaggi e nelle ramificazioni dell'insieme che essi compongono. È nella loro densità, nella consistenza, nella loro esistenza vissuta, resa tangibile in tutti i suoi diversi particolari, che le sue idee vengono metabolizzate. [...] Il romanzo in sé e per sé è il suo mondo mentale. Il romanziere non è che un minuscolo ingranaggio nella grande ruota del pensiero umano. Il romanziere è un minuscolo ingranaggio nella grande ruota della letteratura d'immaginazione. Fine». (pp. 419-420)
Allo stesso modo, occorre prendere le distanze dalle tante accuse di antisemitismo: Roth rivendica la propria libertà di narrare il mondo ebraico da cui proviene, operando anche critiche, senza per questo essere tacciato addirittura di razzismo, come si legge in numerose lettere che gli sono arrivate per tutta la vita. Come ribadisce efficacemente in un passo di Scrivere di ebrei,
«Non si scrive narrativa per affermare principî e credenze che chiunque sembra condividere, né per rassicurarci sulla giustezza dei nostri sentimenti. Il mondo della finzione ci libera dalle gabbie in cui la società rinchiude i sentimenti; una delle facoltà dell'arte è permettere tanto allo scrittore quanto al lettore di reagire all'esperienza in modi non sempre contemplabili nella quotidianità; o, se pure contemplabili, non sempre possibili, o gestibili, o legali, o consigliabili, o anche solo utili alla sopravvivenza. Possiamo anche non sapere di avere uno spettro di sentimenti e reazioni così ampio, finché non vi entriamo in contatto grazie all'operato della narrativa». (p. 55)
Potremmo andare avanti all'infinito a commentare questa ricchissima raccolta, perché gli spunti di riflessione sono moltissimi, ma ci limiteremo a congedarci da questa bellissima opera invitando i lettori di Philip Roth ad accostarvisi il più presto possibile; si tornerà alla sua produzione più consapevoli, e nelle sue pagine di narrativa troveremo ancora una volta conferma di questo:
«La linfa vitale della narrativa è la concretezza, l'incessante contrazione sui particolari, il fervente interesse per la natura singolare delle cose e la profonda avversione per le generalizzazioni» (p. 426)
GMGhioni
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