L’uomo che trema
di Andrea Pomella
Einaudi, 2018
pp. 219
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Per un malato di depressione la visione è netta, senza nebbie. Una persona non affetta da depressione invece ha una visione sfocata, lavora di fantasia, interpreta, completa le forme come un bambino alle prese con i primi esercizi di geometria. L’opacità è dei sani. Lo è perché il non vedere l’esatta forma delle cose è il dispositivo di natura attraverso il quale ci salviamo da noi stessi. (p. 83)
L’uomo che trema è un
memoir, anche se durante una presentazione l’autore ha preferito chiamarlo un
reportage. L’uomo che trema è una
narrazione in prima persona di quel male subdolo e sotterraneo che risponde al
nome di depressione maggiore, e poiché il narratore è anche protagonista di una
vicenda reale (tutto ciò che accade nel libro è realmente successo e tutti i personaggi presenti esistono veramente) il compito si fa ancora più arduo. Già di per sé,
infatti, narrare una patologia psichiatrica è un fatto complesso, perché questo
genere di disturbi tende ad alterare la percezione, e dunque è necessario far
comprendere a chi legge – senza poter ricorrere all’ausilio delle immagini
dirette, come può accadere, ad esempio, nei film – come questo mondo in cui
tutti noi viviamo viene esperito dal malato; figuriamoci allora quanto
difficile (e doloroso) può essere tentare di vedersi dall’esterno, descrivere
ciò che si vive quando la percezione della realtà è piegata, essere al contempo
osservatore e protagonista.
Per fare un riferimento extra letterario, forse poco azzeccato ma che
secondo me rende l’idea, la difficoltà dell’operazione che Pomella ha voluto compiere
è la stessa che ritroviamo nelle osservazioni della fisica quantistica: l’osservatore,
che è elemento interno al sistema, modifica il sistema stesso distorcendo così
la percezione. Ora, se questo è vero in generale, e tutti noi abbiamo un’immagine
ad personam di questo mondo, la
conseguenza diretta è che il malato ha un’immagine ad personam e al contempo patologica del mondo. La conclusione a
cui non si può non giungere è che se non esiste – e non può esistere – una misurazione
oggettiva del fenomeno in generale e dunque, allora tornando all’analisi della
depressione maggiore vissuta, esperita e narrata da Pomella, non esiste e non
può esistere una narrazione oggettiva e non patologica della malattia.
Di ciò è al corrente l’autore stesso, che in più occasioni fa notare
come la depressione «fa guardare alla vita come se la osservassi dai confini
della galassia» (p. 197), e si riflette sulla quotidianità a tal punto al punto
di fargli pensare che «la mia vita coincida per intero con la malattia» (p.
136). E poiché l’uomo-Pomella è inserito per intero nel sistema-realtà in cui
vive, allora egli stesso è soggetto a questo doloroso processo di deformazione:
«se è vero che il corpo non esiste senza la mente, se è vero che non è data –
del nostro corpo – un’immagine corrispondente a una realtà che si potrebbe
definire oggettiva, se è vero questo,
allora il mio corpo è un rottame, un indegno ammasso di deformità» (p. 25).
Tutto questo ha ricadute anche sull’azione, oltre che sulla
percezione: su ogni gesto, anche il più banale, diviene necessario poter
attuare un controllo preciso, e ciò è logorante a livello psicofisico. Il
vivere stesso diviene faticoso, poiché tutto è possibile causa di una nuova
ricaduta.
Particolarmente interessante è a mio avviso il modo in cui la malattia
trasforma i rapporti umani. Mentre nel libro i vari personaggi (chiamarli “personaggi”
fa strano sapendo che si tratta di persone reali, ma tant’è) si mostrano
interessati a conoscere lo stato di salute del protagonista, lui a sua volta
quasi mai chiede agli altri come vadano le cose: la collega Rossana «quasi ogni
mattina, quando arriva in ufficio, passa nella mia stanza, mi chiede come va e
io le faccio il resoconto della notte che ho appena trascorso» (p. 149). C’è un
universo che gira intorno al protagonista, un universo di persone tormentate e
sofferenti – ché il dolore è qualcosa che accomuna tutti noi dopo tutto –
eppure le luci del palco sono proiettate solo su di lui. Anche questa non è una
questione oggettiva, ovviamente: Pomella è consapevole che il resto del mondo
soffra, e tuttavia la malattia lo costringe a focalizzarsi su se stesso.
Questo risulta in modo violento in un’occasione, ossia quando la
compagna, Grazia, che lui stesso definisce «un miracolo» (p. 133) e che viene
percepito dal lettore quasi come un angelo custode, un giorno si sente poco bene. Al di là
della preoccupazione immediata, l’orrore palese nella mente dell’autore è
il seguente:
Non ho timore che Grazia muoia, ma di restare solo a dovermi occupare della malattia. Il dispiacere, l’orrore, lo strazio che mi procurerebbe il fatto luttuoso che Grazia stanotte morisse di nausee e di mal di pancia è secondario. […] il cattivo umore mi trasforma in un mostro di egoismo, e […] l’egoismo è una delle tante manifestazioni della malattia. (pp. 103-4)
L’uomo che trema è dunque il
ritratto fedele – e questo è un paradosso: fedele perché assolutamente non oggettivo
– di uomo che ha affrontato e affronta una malattia complessa e difficilmente
riconoscibile. Pomella ci fa immergere non solo nel proprio mondo, bensì nella
propria percezione di questo mondo, e le sue descrizioni trasmettono tutto il
senso di precarietà e insicurezza con cui è costretto a confrontarsi.
È una lettura ostica ma vivida, che personalmente consiglio a tutti.
David Valentini