Ritorno in Tibet.
Un pellegrinaggio al monte Kailash
Un pellegrinaggio al monte Kailash
di Olivier Föllmi e Jean-Marie Hullot
con iscrizioni calligrafiche del lama Jang Tuk Dakpa
traduzione dal francese di Margherita Botto
L’ippocampo, 2018
pp. 260
€ 29,90
Che effetto vi fa pensare al Tibet? Vi sentite subito più spirituali oppure siete presi dalla voglia di mettervi in tenuta da trekking? Nel dubbio tra i due estremi, fate così: andate in libreria e procurate una copia di Ritorno in Tibet. Un pellegrinaggio al monte Kailash, appena pubblicato da L’ippocampo nella sua versione italiana. Non appena comincerete a sfogliarlo vi renderete conto che anche due reazioni così opposte possono trovare una conciliazione perfetta proprio lì, tra quelle pagine, tra le foto e gli appunti di viaggio di un giramondo esemplare come Olivier Föllmi. Che, dopo averlo fortemente desiderato, c’è stato già una volta circa sei lustri fa, e che nel tornarci in compagnia dell’amico e complice Jean-Marie Hullot ha fatto i conti con tutti i cambiamenti portati dalla globalizzazione e dal cosiddetto progresso, anche nelle sue accezioni più malintese. Lì, pur tra gli autoscatti degli ormai numerosi turisti e i nuovi negozi di cianfrusaglie, ha comunque ritrovato quel senso di meraviglia e di consapevolezza capace di mettere l’anima in pace con se stessa e in armonia con il mondo. E la fotografia, ancora una volta, è stata il suo principale strumento di meditazione.
Difficile rimanere delusi da due guide eccellenti come Föllmi e Hullot, accomunati dalla passione per la fotografia, i viaggi e tutto ciò che riguarda il Tibet e la sua cultura. Se il secondo, importante studioso di informatica, è stato tra gli ideatori dell’iPhone e attualmente presiede la Fondation Iris (istituzione ambientalista sotto l’egida della Fondation de France), il primo è una vera e propria istituzione per i globe trotter. Per almeno due decenni, difatti, Föllmi ha esplorato a piedi le valli poco note dell’Himalaya, e successivamente ha girato il mondo alla ricerca delle diverse forme di saggezza: ne sono nati film documentari e libri (ben trentasei, tradotti in nove lingue e pubblicati in più di un milione e mezzo di copie) oltre che mostre e cicli di conferenze in ogni continente. Premiatissimo (è vincitore del World Press Photo Contest) e nel 2005 annoverato tra i quindici maggiori fotografi del XXI secolo dal «Times Journal of Photography», Föllmi è una vera e propria istituzione vivente, il cui sguardo incantato e allo stesso tempo critico non smette di emozionare e far riflettere.
Succede così anche nel caso di Ritorno in Tibet, in cui il suo resoconto del pellegrinaggio verso le altezze sacre del monte Kailash non può non tenere conto dei profondi cambiamenti avvenuti dal 1984, anno della sua prima volta in quei luoghi. Mutamenti che coincidono o si adeguano a vere e proprie rivoluzioni: politiche, sociali, culturali. All’attenzione del fotografo, nuovamente catturata da paesaggi mozzafiato come da abiti e monili tradizionali degli abitanti dei villaggi, non può sfuggire proprio l’alterità della “visione” attuale. Non a caso il suo compagno, oggi, è proprio Hullot, ideatore dello smartphone per antonomasia. Così può accadere che anche ad altitudini che sarebbero più adatte al raccoglimento interiore, oppure nel bel mezzo di condizioni meteorologiche ostili, le parole e le pratiche vadano a replicare quelle vigenti centinaia e centinaia di metri più in basso. Una su tutte: braccio allungato, pollice opponibile pronto allo scatto, sorriso di prammatica… selfie. Ma anche souvenir, cadeau, kitsch. Perché il turismo sa essere un giocattolo crudele, un caleidoscopio di plastica che incanta e illude con proiezioni fantastiche generate dall’uomo con un semplice giro di rotella. Se non fosse che poi, per fortuna, è sempre la natura a vincere: la natura che la sa molto, molto più lunga. Al punto che anche stavolta, dopo ogni scatto particolarmente emozionante, Olivier Föllmi si ritrova a giungere istintivamente la mani e a ringraziare: per le nuvole bianche, per gli specchi d’acqua, per le albe e per i tramonti. E per l’incrollabile fiducia con cui i pellegrini percorrono il loro personale itinerario verso la montagna sacra, chi veloce e chi lento, tre passi per volta, con soste ripetute a toccare la terra con la fronte.
Se la prima parte del volume alterna gli scatti alle porzioni del racconto di Föllmi – suddiviso in brevi paragrafi dai titoli evocativi quali (tra gli altri) Karma, Distacco, La ruota gira, Sogno – nella seconda e più ampia sezione le immagini diventano protagoniste quasi assolute, intervallate solo da iscrizioni calligrafiche del lama Jang Tuk Dakpa e da brevi citazioni tratte da La via delle nuvole bianche di Lama Anagarika Govinda e Santi e briganti nel Tibet ignoto di Giuseppe Tucci; due testi, questi ultimi, esplicitamente indicati dagli autori come fonti di ispirazione, e che danno spunti per una bibliografia essenziale di approfondimento (insieme con, sempre di Giuseppe Tucci, Tibet paese delle nevi, Three years in Tibet di Ekai Kawaguchi, Islam in Tibet and Tibetan Caravans di Abdul Wahid Radhu, Tibet, le pèlegrinage impossible di Michel Peissel e Viaggio di una parigina a Lhasa di Alexandra David-Néel). Molto indovinata, a questo riguardo, la scelta editoriale di non contaminare la bellezza delle foto con le diciture didascaliche, e di offrire invece un mini schedario in coda al volume, completo di riproduzioni in minore e corredate di tutte le spiegazioni.
Imperdibile per tutti gli appassionati di fotografia naturalistica e di viaggio, e specialmente per chi ama la cultura tibetana e ammira e segue da tempo il lavoro di Olivier Föllmi (e che magari ha già apprezzato il ciclo Saggezze dell’Umanità, tradotto in tutto il mondo con il patrocinio dell’Unesco e già pubblicato in Italia sempre da L’ippocampo), Ritorno in Tibet è uno di quei libri in cui la grandezza del formato è un requisito non accessorio. Le immagini a pagina intera e doppia, sempre tagliate a vivo, sono parte integrante dell’esperienza di lettura e dell’emozione conseguente; come accade per un concerto, una pièce teatrale o un film visto in sala, in cui il rapporto tra l’artista e il pubblico, pur necessariamente mediato, gode di un avvicinamento al grado più puro dell’espressione. Un libro in cui, proprio per questo, il pathos continua oltre l’inquadratura, per invitare al viaggio vero e proprio: senza facili esotismi e folclorismi, senza ammiccamenti, senza promesse e senza facili illusioni. Un invito all’unica ricerca che davvero conta: semplicemente quella del sé più profondo, anche sulle vette più alte e inviolate della terra.
Cecilia Mariani
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