Il dio della solitudine
di Philip Schultz
Donzelli, 2018
pp. 222
€ 17,00
A cura di Paola Splendore
Traduzioni di Maria Adelaide Basile, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore.
Ogni volta che mi propongo di leggere e recensire uno dei libri di poesie di Philip Schultz editi da Donzelli (come ad esempio Erranti senza ali), mi trovo di fronte alla stessa, dura verità: ovvero che la curatrice, Paola Splendore, nella postfazione ha già detto tutto, e bene, con la delicatezza e l'acume di chi conosce davvero l'autore, di chi si lascia davvero attraversare dalle sue parole. Proprio per questo, ogni volta dichiaro la resa e comincio la mia lettura da lì, dalle ultime pagine, che offrono una solida (ma non prepotente) guida ai testi al lettore disarmato. È così che ogni volta si viene reintrodotti in quell'universo di piccole cose e affetti familiari che popolano la poesia di Philip Schultz. Una poesia che tradisce una continua esigenza di riconciliarsi col tempo, un tempo problematico, che spesso porta con sé ricordi vividi e feriti; ma una poesia anche che richiede il suo tempo, che viene maturata nel tempo, come dimostra il lungo intervallo tra le diverse raccolte da cui sono tratte le liriche che costituiscono questa antologia. Una poesia, quindi, che nel tempo rivela le sue due anime, messe splendidamente in rilievo anche dalla curatrice: la solitudine, il dolore, lo spaesamento da un lato, e l'accettazione, la pacificazione, talora l'ironia che accompagnano l'io poetico adulto, i testi delle ultime raccolte.
I versi che si susseguono tra le pagine sono sempre interlocutori, dialoganti: spesso sono dedicati a qualcuno, o rivolti a un tu lontano nel tempo e nello spazio. Quando il destinatario non è indicato, è il lettore che chiamano in causa, con parole sempre nette, immagini sempre vivide. Emerge dalla pagina una storia famigliare rivissuta quasi ossessivamente, che comincia in un passato quasi mitico e che scorre nel sangue, si porta impressa nel volto, nel corpo:
[Mio padre] aveva visto l'America la prima volta in braccio a suo padre / & il padre diceva che qui poteva avere tutto se lo voleva / con tutto se stesso [...] I suoi occhi mi guardano ancora dagli specchi & lo sento ravvivare / la stufa con un calcio e sento il sale delle noccioline sulle sue mani [...] & ancora calcolo la distanza del tuono in battiti del cuore come mi ha insegnato lui & un giorno / ho guardato la grande rosa del sole aprirsi sull'oceano mentre fluttuavo sulla prua / del traghetto per Staten Island & avevo l'età di suo padre quando arrivò / con un vestito preso in prestito & una tale voglia di invenzioni & i ponti / erano montagne & i palazzi oro & il cielo si inarcava all'indietro / come una ballerina & i suoi capelli rossi carezzavano l'orizzonte & i miei occhi bruciavano / in mille finestre & tutto l'Atlantico si frangeva ai miei piedi. (pp. 26, 28)
Il mondo fuori resta bello e inaccessibile ("le stelle continuano a sopravvivere come sillabe di una lingua scomparsa ma bella"), ciò che resta è allora la "Personal History", popolata di luoghi, persone, soprattutto fallimenti, perché "la vita è una commedia condita di disperazione" (p. 51), da affrontarsi con una saggezza amara vecchia di millenni, nella consapevolezza che "si scrive per cancellare l'errore che non possiamo cambiare nella nostra vita" (p. 45).
Quella curata da Donzelli è un'opera diacronica che misura il passare del tempo anche nello stile e nella forma poetica, consentendo al pubblico di leggere il cambiamento – l'evoluzione – dell'autore attraverso la sua gestione della parola, oltre che nei temi affrontati e ripresi. Il flusso di pensiero travolgente de Il sacro verme della lode (2002) scavalca il pensiero franto di In fondo al burrone (1984); dall'amarezza dei ritratti senza titolo, delle figure ritornanti di Vivere nel passato (2004) si passa alla rielaborazione di Failure (2007), ad una vita piena in cui ci sono cose da celebrare, seppur con trattenuta pacatezza, oltre che cose da ricordare. In cui i morti continuano a tornare, ma la loro presenza si fa rassicurante, consolatoria: "Prima pensavo / che i morti preferissero starsene tra loro. / mi sbagliavo. Preferiscono stare con noi" (p. 145).
La consolazione è data dalla presenza di nuovi angeli custodi a sostituire il vecchio Stein: la moglie, a cui sono dedicati ritratti colmi di tenerezza, e i figli – che abbiamo già imparato a conoscere nel toccante memoir La mia dislessia (qui la recensione). Il tono cambia poi ulteriormente nei nuovi testi de Il dio della solitudine (2010), virando verso una poesia prosastica (quasi prosa poetica) che si ammanta dei toni della maturità. Compaiono nuovi numi tutelari, come le pareti domestiche, e una felicità fragile e precaria, ma finalmente raggiunta. Trova compimento qui anche una riflessione sulla poesia già avviata nelle raccolte precedenti.
Già allo Schultz giovane la poesia appariva infatti strumento di salvezza, ma liminare, arduo da raggiungere, renitente al contagio:
Presto sarà mattino e [...] un'altra delle 66 persone che comprano libri di poesia sarà morta e no, non ti sanguina più il naso durante le letture in pubblico ma, dopo tutti questi anni, stai ancora avviando le tue ali di cera per un altro folle volo. (p. 61)
Che poi, forse, il problema non è tanto che non tutti sono pronti per la poesia, ma che il limite è nostro, che noi non riusciamo a raggiungerli:
Il poeta stava morendo, dissi, ma scriveva divisioni e terre incantate. Della bellezza. Della speranza. Vi prego, disse, sentite la verità in ogni sillaba, ma i loro occhi restarono spenti e me ne andai pensando che ce l'avrei fatta se solo avessi un po' insistito. (p. 59)
Solo con l'andare del tempo, con il raggiungimento di un successo accolto quasi con incredulità, lo statuto di Schultz cambia e lui diventa più conscio del proprio ruolo proprio mentre si rende conto del prezzo della scrittura e della discesa in campo dell’io:
Le mie poesie / saccheggiano quasi tutto, timori, progetti, / congetture e stupori, cercano prove / di infedeltà, frammenti di ispirazione. Indifferenti alla sofferenza che descrivono, odiano tutto quello / che amo, credono solo nella loro insularità. (p. 169)
Dalla narrazione di eventi minimi scaturiscono anche profonde riflessioni sul senso dell'esistenza: ogni immanenza rimanda a una trascendenza, per quanto il poeta provi a negarla e a restare ancorato alla materia dell'oggi. È per quello che, in un presente indefinito eppure precisissimo, i vivi e i morti possono procedere insieme, associati in un'unica missione, in un'uguale consapevolezza:
Noi contro il resto del mondo… Tutti noi, i vivi e i morti, errando senza fine in una epifania in cui l'unica cosa che ci appartiene è il nostro dolore e quel che resta del desiderio di colonizzare il cielo. (p. 123)
Fino all’ultima pagina, ai testi più disincantati e amari di Lusso (“All’improvviso / e senza capirne la ragione / tutto mi appare postumo, / impassibile e inevitabile”, p. 201), i versi di Schultz continuano a scavare nella coscienza del lettore, che è continuamente spronato a interpellarli, anche grazie alla ricchezza offerta dalla presenza del testo originale a fronte. La poesia diventa allora qualcosa di vivo, palpitante, in grado di interrogare la realtà. E uno si sente orgoglioso di far parte di quelle 66 persone che ancora sfogliano antologie poetiche.
Carolina Pernigo