Rosa rosa amore mio
di Wang Zhenhe
Libreria Editrice Orientalia, Roma 2014
a cura di Anna di Toro
pp. 356
€ 20 (cartaceo)
Il romanzo del taiwanese Wang Zhenhe, uscito nel 1984, con il titolo Meigui Meigui wo ai ni, è stato riadattato da Anna di Toro e pubblicato dalla romana Editrice Orientalia qualche anno fa, nel 2014. Hualian, nel romanzo originale, (Lotusa nella versione italiana) è la cittadina natale dello scrittore dove è ambientata la vicenda, che parte da una storia vera, ovvero l’arrivo, nel 1968, di un contingente di soldati americani in licenza dal Vietnam; all’evento fu dedicato addirittura un bar.
Fu un momento di grande festa per i cittadini della piccola località, che restò impresso nella mente del giovane Zhenhe, che pensò di scriverci un libro. Per varie ragioni il libro ebbe una gestazione lunghissima e uscì poi solo negli anni ’80, completamente rinnovato nell’idea, incentrandosi soprattutto sui preparativi che la comunità fa per accogliere al meglio i soldati, pensando di offrire loro delle giovani prostitute, opportunamente istruite come bargirls, per deliziare gli ospiti.
A capo dell’impresa di “riqualificazione” del personale sarà posto un insegnante di inglese delle medie, che, forte dell’appoggio di un potente locale, si farà un po’ prendere la mano e la trasformerà in un’occasione di rivalsa per le ragazze e per se stesso. Il tutto farcito da una comicità che a tratti sfocia nella satira. La particolarità della riduzione italiana del testo sta nell’espediente utilizzato dalla traduttrice per renderlo fruibile al pubblico italiano, ovvero l’uso del dialetto in ragione dei diversi registri linguistici utilizzati da Zhenhe.
Rispetto alla traduzione inglese, effettuata da Howard Goldblatt, che ha potuto beneficiare di più livelli di inglese, in italiano, l’unica alternativa linguistica accettabile e credibile era l’uso del dialetto. In particolare i personaggi parlano in catanese, lasciando un senso di smarrimento al lettore che pensa di trovarsi di fronte a scenari esotici e lontani, come la stessa traduttrice spiega in premessa, ma essendo la traduzione un dialogo con il testo e l’autore, la scelta è stata fatta per restare quanto più fedele possibile all’intento di mescolanza linguistica e denuncia sociale.
Il titolo del romanzo è il ritornello di una canzone degli anni ’40, che ebbe al suo esordio poco successo, ma che fu rifatta in una versione inglese qualche anno dopo, spopolando in tutta la Cina, cantata da diverse dive della canzone cinese. Simboleggia, ancora una volta, come l’influsso delle dominazioni e della cultura straniera abbia la meglio sull’originale prodotto locale.
Il romanzo trova la sua forza proprio nell’intreccio a più stratificazioni linguistiche, simbolo di commistione e contaminazione, portando con sé anche una velata denuncia politica. Nel 1949 infatti la fondazione della Repubblica Cinese di Taiwan porta ad una serie di cambiamenti per la popolazione, tra cui una durissima repressione linguistica, si veniva perseguiti con pene corporali se scoperti ad utilizzare il dialetto. Il nuovo governo cinese mal tollerava che la popolazione si riconoscesse più taiwanese che cinese. La struttura dell’opera è fortemente connessa a questo uso del linguaggio e lo stesso narratore, che per la maggior parte dell’opera appare onnisciente, a volte irrompe con precisazioni linguistiche e parentesi esplicative, creando un effetto straniante che ha il merito di coinvolgere il lettore nel tessuto narrativo. A volte sono i personaggi a raccontare la vicenda, come nel lungo racconto affidato a Leone il Nasone, nel capitolo 12.
La caratterizzazione dei personaggi, attraverso epiteti che rendano nel nome una caratteristica fisica ma anche una peculiarità della personalità, è anche questa una scelta di denuncia operata dal narratore, così come quella di suggerire alle ragazze, secondo la moda dell’epoca, un secondo nome inglese. Introducendo questa moda nel romanzo, così come numerosi oggetti di importazione americana, si pone l’accento sull’influenza delle dominazioni straniere, a livello ideologico, che impoveriscono e sviliscono la società taiwanese.
Dong Siwen, che in italiano diventa Concettino Finezza, è il protagonista, ovvero il professore di inglese, caratterizzato da manie di grandezza e con trovate al limite del ridicolo, oltre che moralmente corrotto, nonostante la sua parvenza da borghese osservante. E in questo suo applicare in maniera parossistica le buone pratiche della morale, la maggior parte delle quali ricavate dai precetti del confucianesimo, sta la denuncia dell’autore alla corruzione dell’epoca. Nel testo italiano le radici culturali affondano nella filosofia greca, per rendere il contesto occidentale. Ma la denuncia alla politica corrotta e ai precetti morali che sono alla fine solo un pretesto per utilizzare a proprio piacimento e in un contesto formalmente corrotto il proprio sapere e le proprie radici, ci dicono molto del modo di agire dei vertici della società taiwanese dell’epoca.
Una scelta coraggiosa e controcorrente, che ha il sapore di una scommessa, questo romanzo, che saprà sicuramente ritagliarsi un posto privilegiato nel cuore dei lettori più esigenti e attenti, che ne apprezzeranno l’originalità e lo spaccato culturale che è in grado di offrire.
Samantha Viva