Minimal Film.
L’universo del cinema reinterpretato graficamente
di Matteo Civaschi
Skira Editore, 2018
pp. 253
€ 30,00
A quale categoria pensate di appartenere: sintetici o prolissi? Indipendentemente dalla risposta, cimentatevi con questo esercizio: prendete un foglio bianco e provate a raccontare un film con pochi (pochissimi!) segni grafici e ancora meno colori. Sareste in grado o rinuncereste in partenza? È vero: non sarebbe affatto una sfida così semplice da raccogliere, e non importa che sappiate o meno disegnare. L’impegno, difatti, sarebbe concettuale ancora prima che artistico/estetico, e la vera fatica, nel ridurre all’osso un lungometraggio – o magari un’intera serie TV – sarebbe rinunciare al conforto della polpa. Eppure, per quanto ardua sia l’impresa, compierla si può, e sfogliando Minimal Film di Matteo Civaschi, appena pubblicato da Skira Editore, se ne ha la prova visiva più efficace. Dimenticate le vecchie e pur bellissime locandine cinematografiche, sature di pathos iperrealistico o più comodamente adagiate sugli allori della migliore fotografia, e immaginate una storia del cinema fatta di punti, linee, figure geometriche e un po’ di Pantone.
L’universo del cinema reinterpretato graficamente
di Matteo Civaschi
Skira Editore, 2018
pp. 253
€ 30,00
A quale categoria pensate di appartenere: sintetici o prolissi? Indipendentemente dalla risposta, cimentatevi con questo esercizio: prendete un foglio bianco e provate a raccontare un film con pochi (pochissimi!) segni grafici e ancora meno colori. Sareste in grado o rinuncereste in partenza? È vero: non sarebbe affatto una sfida così semplice da raccogliere, e non importa che sappiate o meno disegnare. L’impegno, difatti, sarebbe concettuale ancora prima che artistico/estetico, e la vera fatica, nel ridurre all’osso un lungometraggio – o magari un’intera serie TV – sarebbe rinunciare al conforto della polpa. Eppure, per quanto ardua sia l’impresa, compierla si può, e sfogliando Minimal Film di Matteo Civaschi, appena pubblicato da Skira Editore, se ne ha la prova visiva più efficace. Dimenticate le vecchie e pur bellissime locandine cinematografiche, sature di pathos iperrealistico o più comodamente adagiate sugli allori della migliore fotografia, e immaginate una storia del cinema fatta di punti, linee, figure geometriche e un po’ di Pantone.
Creativo, autore, speaker e soprattutto graphic e motion designer, fondatore dello studio H-57 (2004) e vincitore di un Leone al Festival di Cannes nella categoria Design (2011) con il libro Life in Five Seconds, Matteo Civaschi è fondamentalmente un amante delle immagini, sia ferme che in movimento. Ed è talmente persuaso della loro efficacia che nel 2011 ha inventato Shortology, definito da lui stesso «un linguaggio immediato in grado di raccontare qualsiasi cosa attraverso i pittogrammi», «tratti lineari e forme semplici, rigorosamente in bianco e nero, che a un tratto prendono forma e diventano icone stilizzate: migliaia di icone da utilizzare come vocaboli di un linguaggio comunicativo divenuto infine distintivo» (p. 4). Da sempre affascinato dalla magia del grande schermo, l’autore ha dunque voluto rendere omaggio ai film che negli anni hanno segnato il suo immaginario personale (ma anche quello collettivo) attraverso un’operazione di estrema semplificazione visiva, provando a restituire il senso di trame e atmosfere memorabili servendosi unicamente di linee curve e spezzate, punti, figure geometriche assortite, campiture piatte di colore, qualche rara (e solo apparente) sfumatura – per sottolineare «la tensione narrativa generale del film» (p. 13) – una tris di piccole icone “ausiliarie” e una serie di numeri misteriosi... (il cui significato verrà spiegato in coda al volume).
Se quello cinematografico è un sortilegio vero e proprio basato sul consenso all’illusione da parte dello spettatore, Matteo Civaschi prova a suscitare lo stesso incantamento raffinando all’estremo la sua formula magica attraverso «una cinica e spietata sintesi visiva» (p. 5). E l’effetto, oltre che di forte impatto per lo sguardo, è sorprendente: così come ci si chiede come faccia il prestigiatore a tirare fuori interi mazzi di carte da un polsino inamidato o da una mano guantata, allo stesso modo ci si domanda come sia possibile ottenere così tanto con così poco. Merito dei film prescelti, forse, sempre caratterizzati da storie memorabili, scene madri proverbiali, personaggi iconici e oggetti totemici che a volte basta davvero un nonnulla per richiamarne alla mente l’energia. Ma merito, senza dubbio, del coraggio dello stesso Civaschi, che ogni volta, con sicurezza e con quella che ha definito «una profonda quanto crescente responsabilità nel “buttare via tutto”» (p. 5), ha puntato i riflettori al massimo della potenza su un momento cruciale del racconto o su un punto preciso del set. E non avrebbe potuto essere altrimenti, perché proprio questo è il senso del libro: «l’esperimento di Minimal Film sta proprio qui, nel rappresentare l’emozione del cinema attraverso la sintesi estrema e la semplicità delle forme» (p. 13).
Ecco dunque che interi micro e macrocosmi finzionali si aprono davanti agli occhi del lettore, con le sensazioni provate al momento della prima visione che vanno a sommarsi allo stupore suscitato dalle tavole illustrate. A volte il focus è su un protagonista o un comprimario (e si veda anche tutta la sezione finale, giocata sulla rielaborazione dei primi piani); altre volte il centro del quadro è occupato da un oggetto inanimato, e altre ancora è l’ambientazione a farsi carico dell’atmosfera dominante del film, sia essa paesaggio naturale o scenografia ricostruita. Così, il volto inquietante del pagliaccio Pennywise ci guarda fisso per evocare It con tutti i suoi diabolici palloncini; i cioccolatini "sorprendenti" di Forrest Gump occhieggiano con ordine dalla loro scatola; l’oceano in cui si aggira Lo squalo con la sua pinna minacciosa è "congelato" in un'apparente calma piatta. Tuttavia, le tavole in cui Civaschi riesce al meglio sono forse quelle capaci di evocare il movimento: quello fatale che darà il via all’azione, quello che la farà degenerare, quello che le metterà fine e quello che potrebbe ripetersi all’infinito, eco di una scena onirica, assurda, fantascientifica. E forse non è un caso che proprio queste interpretazioni siano tutte basate su effetti di ripetizione e giustapposizione: i petali della rosa ribattezzata American Beauty cadono all’infinito sul protagonista del film; le rane di Magnolia piovono ancora dall'alto; le uova di Alien giacciono inerti in file ordinate fino a che una piccola incrinatura non denuncia la presenza attiva di un’abominevole forma di vita…
Godibilissimo anche per la scelta del grande formato che ne fa apprezzare ancora di più la dialettica tra forme e colori, e costantemente vivacizzato anche dall’omaggio esplicito «al magico mondo del design degli anni sessanta/settanta, con i suoi grandi creativi, designer e architetti (Joe Colombo, Max Huber, Gio Ponti e Armando Testa)» (p. 9), Minimal Film è il volume che davvero non può mancare nelle librerie dei lettori cinefili e dei cultori di tutto ciò che, nella settima arte, è anche merchandising. Non è necessario, per apprezzarlo, (ri)conoscere ogni singolo lungometraggio: anche chi scrive questo commento, per esempio, ne ha ancora più di uno da aggiungere alla lista di quelli da vedere più prima che poi. Quindi, se è vero che il libro può essere usato anche come gioco di società in una gara tra esperti a chi indovina per primo di quale grande classico si tratta, allo stesso modo è bello provare a decifrare l’immagine dal nulla, senza avere appigli provenienti dalla narrazione o dal sistema dei personaggi. Un esercizio utile, stimolato da un volume che l’autore, nel suo complesso, non manca di definire «una coccola visiva» (p. 9). Difatti, sebbene il fascino delle vecchie locandine si avvantaggi sempre del surplus sentimentale tipico della patina vintage, le interpretazioni di Matteo Civaschi non hanno nulla della freddezza che di solito viene associata alle semplificazioni grafiche, che anzi in questo caso sembrano passare attraverso il filtro di una meditazione non solo intellettuale ma anche affettiva; come se il grafico si concedesse di intonare un proprio canto parallelo anche in virtù del proprio amore per i film in questione, fonti amatissime di imperitura ispirazione.
Cecilia Mariani