Il mestiere più bello del mondo. Faccio il giornalista
di Luigi Garlando
Rizzoli, 2018
pp. 173
€ 15
Giornalista di punta della
Gazzetta dello Sport, Luigi Garlando racconta come sia arrivato a firmare
articoli e a stilare le mitiche pagelle dei calciatori dopo una partita seguita
dal vivo. Giungendo a una sorta di mantra: quello che svolge è il mestiere più
bello del mondo. Perché in grado di abbinare le sue due grandi passioni: calcio e giornalismo.
Ma quello che più conquista di
questo libro è la visione stessa di una professione, oggi attaccata su più
fronti, dall’idiosincrasia del potere nei confronti del libero pensiero alle
“bufale” che i social amplificano in maniera esponenziale. A dire il vero, il giornalismo si è anche impoverito per
colpe proprie. Ma a questo punto non è neanche giusto parlare di
giornalismo. Sarebbe più corretto parlare dei suoi singoli interpreti. Così
come di calciatori e non di calcio.
A tal proposito, Luigi, che
appartiene, e lo si percepisce, alla vecchia scuola del rispetto dei ruoli -
ebbene sì, c’è una gerarchia all’interno delle redazioni, almeno di quelle
serie, e non c’è nulla di male in questo - sente di dover rimarcare
l’importanza di ciò che appare come una banalità: la verifica delle fonti. Scrivere sì, possibilmente bene, e per
farlo occorre essere ottimi lettori, ma non certo scrivere per scrivere.
I giornali hanno spazi da
riempire ma se uno crede di farlo con 2.000 battute e poi tornarsene a casa per
cena ha sbagliato mestiere. Se in fondo
a un articolo appare il tuo nome, occorre che quanto lo precede sia
attendibile. Verificato. Scritto grazie a un sapente uso di libertà
personale, accortezza lessicale senza però eccedere in inutili ghirigori,
confronto con i protagonisti delle tue parole. Ah, dimenticavo: amore per ciò
che si fa. Poi verranno i titoli, l’occhiello, il catenaccio, ma qui subentrano
ruoli redazionali e un concetto di squadra che chi lavora a un quotidiano non
dovrebbe mai scordare.
Oggi i social ci hanno
trasformato, ci hanno illuso di essere diventati, editorialisti. Da 280
caratteri se in possesso di un account Twitter, con margini di spazio maggiori
se in possesso di un profilo Facebook. Non bastano questi. Seppur nella
variante sportiva, Luigi Garlando offre un
manuale che reputo buono per i giornalisti tout court. Certo, ci sono gli
aneddoti personali, il tifo per una squadra specifica, i viaggi al seguito di
atleti olimpici o dell’Italia ai mondiali, le avventure per catturare una
notizia che comparirà solo nel quotidiano in cui si scrive, le tecniche per
rispettare i tempi di consegna, ma il rumore di fondo è l’epifania di un ruolo
che non merita di essere lasciato al primo che capita.
E tutto viene raccontato senza
mostrare i muscoli, ma con i “piedi buoni” della pacatezza, del sorriso, di chi
ha confidenza con il centrocampo, di chi non dimentica che è andata così ma
poteva andare anche in un altro modo. I
“piedi buoni” della riconoscenza verso un destino favorevole, quasi il
frutto machiavellico di “golpe et lione”, ovvero coraggio al momento giusto e
forza di volontà.
Attenzione, le cose sono cambiate
da quando Garlando ha fatto il suo esordio, oggi la carta stampata non è
esattamente la palestra più agevole e proficua. Potrebbe perfino necessitare darsi un termine, trascorso il quale
scatta il piano B dell’esistenza. E dire, ad esempio: proviamo con il concorso
per entrare nella scuola. O in banca. O rilevare l’azienda del padre.
Ma non importa scalare la
montagna fino a essere la firma più prestigiosa, basta capire che nelle
dinamiche personali e redazionali, questa professione può essere svolta con lo sguardo rivolto non soltanto verso i
propri talenti ma verso quelli che albergano negli altri. Per scoprirli e
valorizzarli. È così il giornalismo, che non so se è il mestiere più bello del mondo
ma di sicuro è tra i più belli, potrà avere un futuro.
Marco Caneschi