di Peter Cameron
Adelphi, 2018
pp. 122
€ 16 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
[...] perché devi rimanere disperatamente aggrappato all'esistente? Perché non ti lasci andare e accetti il cambiamento? Che cos'è che ti spaventa così tanto del futuro? (p. 24)
Due racconti lunghi, o forse meglio dire due romanzi brevi, se stiamo a guardare la densità e lo sviluppo incredibilmente intenso di La fine della mia vita a New York e Dopo l'inondazione, che compongono Gli inconvenienti della vita, uscito di recente per Adelphi. In America, i racconti (in una redazione diversa) sono usciti prima su «Subtropics», la rivista di David Leavitt, e non è certo un caso che uno dei maestri della scrittura breve abbia selezionato questi testi. All'interno dell'attuale raccolta adelphiana, i due racconti appaiono come facce di una medaglia molto simile: quella della crisi innescata dal cambiamento.
Basta poco per incrinare l'equilibrio che ci si è costruiti spesso grazie a finzioni piccole ma quotidiane. In La fine della mia vita a New York, Theo, in uscita da una seduta di agopuntura, si trova a mettere in crisi tutto, compresa la sua relazione duratura con Stefano: ci sono tormenti che porta con sé da tempo, che ha provato a superare con la terapia, che non si è però rivelata efficace, perché mostrava aspetti inaccettabili di sé.
Nel secondo racconto, invece, è l'ospitalità data a una famiglia di sfollati dopo un'inondazione (da qui, il titolo) a scardinare le certezze della protagonista sessantacinquenne, chiusa col marito nella loro grande casa vuota, dove la porta della camera della figlia resta ostinatamente serrata, insieme al dolore della perdita. «Ero andata avanti come sempre, con quelle due grandi parti di me amputate, perdute» (p. 104): anche per lei, come per Theo, ci sono ricordi impossibili da dimenticare, ma che cerca di superare negando la loro esistenza, costruendosi artifici quotidiani per resistere.
Ma quanto è possibile placare i rimorsi, o anche solo la nostalgia urticante del passato? Quelli che vengono riduttivamente etichettati come inconvenienti dai personaggi sono invece vere tragedie che spesso impediscono di andare avanti, impantanando i protagonisti in una loro solitudine, mai davvero compresa e condivisa dagli altri, o quasi mai:
"Senta, tutti mi dicono le bugie. È logico, sono una terribile ficcanaso, ma la ringrazio per avermi detto la verità".
"L'ultima volta che è venuta ero frastornata, non so neanch'io perché".
"Perché le stanno a cuore le cose, e le persone. È frastornante, come modo di essere". (p. 108)
Di certo la relazione amorosa non è risolutiva, né anche solo un blando aiuto. Infatti, il tentativo (che, immaginiamo, resterà tale) di soccorso, semmai, arriva dall'esterno: dalla amica di sempre, nel primo racconto; dal reverendo, nel secondo. Il partner resta assente, l'incomunicabilità - palese e sofferta, in un caso; nemmeno compresa, nell'altro - è parte della sofferenza del protagonista:
C'era un curioso senso di vuoto, di tolto, come se ci fosse un buco non so dove, dal quale piano piano la mia essenza colava via. (p. 108)
E cosa resta? Sono questi momenti epifanici, questi improvvisi scrolloni dati dalla vita che Peter Cameron coglie con uno stile asciutto, equilibrato, feroce nel suo essere misurato e appropriato al contesto. Niente stride: i dialoghi, che spesso muovono dal quotidiano e sembrano limitarsi a chiacchiera, si trasformano all'improvviso davanti agli occhi dei lettori in rivelazioni; e i personaggi si stagliano nella loro fragilità, ossimoro onnipresente del loro sorridere davanti a un vetro che riflette i loro visi invece così profondamente tristi. Uno sfolgorante racconto della crisi - non quella economica, ormai narrativamente abusata, ma quella personale -, con un'indagine che sembra quasi passata di moda e che invece è tanto necessaria.
GMGhioni
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