Molti inconsci per un cervello.
Perché crediamo di sapere quello che non sappiamo
di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà
Il Mulino, 2018
pp. 208
€ 15 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
Dalla teoria platonica della tripartizione dell’anima a quella aristotelica delle
passioni, passando per il libero arbitrio di sant’Agostino e, in
epoca moderna per la suddivisione cartesiana della realtà in res cogitans e res extensa e dunque per il cogito ergo sum, fino ad arrivare alle soglie della
modernità con il kantiano Io penso, è fuori discussione che il
modo in cui arriviamo a prendere una decisione è stata ed è una
delle tematiche di maggior rilievo filosofico, su cui si sono concentrate e
divise le più grandi menti dell’umanità.
L’argomento, oltre a essere di grande spessore teoretico, è
fondamentale anche a livello etico-pratico: avere chiaro il funzionamento della
mente umana e dei suoi meccanismi consente di poter attribuire, al di là di
ogni ragionevole dubbio, la responsabilità morale delle azioni, e dunque di capire quando e in che modo è possibile attribuire colpe e meriti a un individuo. Il sentire comune, infatti, prevede che «le azioni compiute in assenza di libero
arbitrio non esistono, o meglio esistono come comportamenti “automatici”, ma
non come comportamenti di cui si è coscienti» (p. 152). Così, per lo stesso
motivo per cui non si può punire un individuo che ha compiuto un’azione
criminosa in preda a dei comportamenti automatici e fuori dal proprio
controllo, allo stesso modo «un robot, programmato ad agire secondo schemi
fissi, non ha coscienza delle sue azioni e non ne è responsabile» (ivi).
Accettato ciò, tuttavia, diviene necessario comprendere se e quando l’essere
umano è libero di agire, o meglio: alla luce delle scoperte neuroscientifiche
contemporanee, diviene necessario comprendere quali processi cerebro-mentali si
“nascondono” dietro le azioni, così da poter attribuire all’individuo la
responsabilità delle azioni.
Il tutto si può riassumere in una domanda fondamentale: perché, se
dietro un comportamento ci sono processi scaturiti da una serie di impulsi
elettrici che si spandono attraverso determinate aree cerebrali, l’uomo che
uccide a sangue freddo la moglie è, davanti alla legge e alla morale comune,
responsabile delle (e dunque punibile per le) proprie azioni, mentre un
altro uomo affetto da un qualche disturbo di personalità viene dichiarato
innocente (con tutti i limiti del caso)? Non vi sono sempre gli stessi
meccanismi cerebrali alla base delle due diverse azioni? Dove sta la
differenza?
Sulla scia di queste domande fondamentali, e salendo sulle spalle dei
giganti della tradizione filosofia occidentale, Legrenzi e Umiltà cercano di
fornire a questo tema risposte soddisfacenti e al contempo comprensibili, attraverso
un volume che non ha, e non può avere, la pretesa di esaustività a cui mirano altri libri di
carattere più prettamente scientifico scritti in questi anni: vano sarebbe dopo
tutto il tentativo di spiegare in un testo di appena 208 pagine la formazione della coscienza, nel doppio
significato di coscience e consciousness di cui parlano, ad
esempio, Gerald Edelman e Giulio Tononi in Un
universo di coscienza, e con essa la responsabilità morale.
Le prime pagine del libro sono forse le meno interessanti: come per la
maggior parte dei testi che propongono nuove teorie, è necessaria infatti una pars destruens che si confronti con le
teorie attuali e faccia luce sulla terminologia, spesso usata in senso
improprio sia nel gergo comune che in quello specialistico. I primi tre
capitoli sono dedicati dai due professori emeriti a separare i vari
concetti di inconscio in cui ci si è imbattuti nel corso della storia dall’inconscio
cognitivo concepito come «contenuto del quale non abbiamo esperienza diretta»
(p. 58). Necessario risulta per loro distinguere questo tipo inconscio da
quello freudiano, il quale invece è «costituito da contenuti, depositati nella
memoria a lungo termine, che riguardano eventi della prima infanzia e i
rapporti con le figure parentali» (p. 59). La distinzione è sottile ma
fondamentale: dei contenuti dell’inconscio freudiano possiamo, attraverso
tecniche come l’ipnosi o la psicanalisi, riuscire ad avere coscienza; di quelli
dell’inconscio cognitivo, che pure «sono qualitativamente uguali ai contenuti
consci» (p. 61) invece si può avere solo esperienza indiretta tramite esperimenti
in laboratorio.
A proposito di questi esperimenti, quelli citati da due autori sono i
classici con cui ci si confronta ogni volta che si affrontano questi argomenti:
parliamo degli esperimenti di Benjamin Libet riportati anche nel libro Mind
Time (e ripresi negli anni duemila da Soon, Brass, Heinze e
Haynes), del dilemma
del carrello e di altri simili sulla percezione. C’è da dire, a difesa di
Legrenzi e Umiltà, che quando si tratta di esperimenti di questo tipo, che incontrano
la necessità di essere riconosciuti dalla comunità scientifica come validi e
attendibili, inevitabilmente si incappa in questo collo di bottiglia, per cui il
lettore quasi si aspetta di trovare di nuovo gli stessi nomi e le stesse teorie
leggendo un testo del genere.
Più volte, in ogni caso, gli autori tornano ad affermare che, mentre il
genere Homo, così come la maggior
parte degli animali vissuti e viventi sul pianeta, se l’è cavata benissimo col
solo inconscio cognitivo, l’Homo sapiens
ha effettuato quel balzo evolutivo che gli ha consentito l'accesso
consapevole ai propri contenuti mentali, elemento strategico fondamentale per
adattarsi a un ambiente sempre più mutevole e ricco di imprevisti. La coscienza
per i due autori ha primariamente «quel ruolo di vigilanza e freno nei
confronti di un agire e credere troppo impulsivi» (p. 129): in altre parole è
ciò che consente di andare al di là del momento appena vissuto e di quello che
si sta per vivere, così da poter pianificare le proprie azioni a lungo termine,
inibendo i comportamenti ritenuti nocivi e favorendo quelli adattivi. Come
esternalità positiva, la coscienza intesa in questo senso consente all’individuo
di estendere questo modo di ragionare agli altri individui del proprio gruppo,
creando così schemi condivisi di cui poco o nulla sappiamo, e che tuttavia risultano «necessari per prevedere che cosa farebbero gli
altri in una data situazione» (p. 147).
Tutto questo discorso è connesso ad altri grandi temi come l’empatia,
i comportamenti sociali, il modo in cui è possibile condizionare le persone.
Come si può notare, gli argomenti sono tanti e
interconnessi, e soprattutto sono oggetto di studio contemporaneo e dunque
attualissimi. Le voci che popolano questo settore di ricerca, all’incrocio fra
neuroscienze, psicologia morale e filosofia, sono tante e diverse, e dalla loro interazione nasce e cresce un dibattito vivace e che porterà, nei prossimi
anni, a svelare qualcosa dell’essere complesso che noi tutti siamo, capitato su
questo pianeta per caso e che oggi, nel XXI secolo, può iniziare a darsi
risposte concrete su domande esistenziali poste oltre due millenni fa.
David Valentini
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