L’onore e il silenzio
di Gianni Mattencini
Rizzoli, 2018
pp. 275
€ 18
L’anno rimanda inevitabilmente
agli esordi del regime. Ma si può scrivere un romanzo collocato nel 1924 senza
che il fascismo compaia? E dire che di cose ne accaddero, dalle elezioni politiche,
che videro le liste mussoliniane stravincere grazie al meccanismo della legge
Acerbo, all’omicidio di Giacomo Matteotti. Peraltro il romanzo è ambientato a
novembre e dunque tutto questo era già successo. Ma se si sprofonda nell’Italia meridionale, la Storia pare incepparsi
di fronte a dinamiche sociali che esistevano prima ed esisteranno dopo.
È in questa Italia meridionale
che Gianni Mattencini, che di meridione se ne intende visto che è pugliese e fa
il magistrato, ambienta una vicenda che dopo la deflagrazione iniziale, la
classica scoperta di un cadavere, peraltro mutilato del sesso maschile, e la
comparsa del brigadiere chiamato a risolvere il caso, prosegue con un ritmo in cui il picco dell’intensità si
scontra repentinamente con la sua attenuazione, con personaggi che è come se provassero a farsi largo tra le
foschie del mattino o gli sbuffi di una locomotiva. Anche il lettore, a questo
punto, è costretto a un ruolo esplorativo, di chi si addentra in una macchia:
trovarsi nel cuore dei boschi della Calabria diventa non solo un aspetto
geografico.
È chiaro che il genere con cui
Mattencini si cimenta è fatto proprio di questo escamotage, ovvero lasciare
progressivamente apparire indizi che convergono verso una situazione o un
colpevole, salvo efficaci colpi di scena finali che sono appannaggio di chi il
genere stesso lo padroneggia. Ma con “L’onore e il silenzio”, dopo la citata
deflagrazione iniziale, le tracce che seguono non sono tangibili e materiali,
se non una verso la fine, piuttosto un fitto
reticolo dalle spine sempre in
agguato. E queste si chiamano: dolori rassegnati, disperazione, sentimenti
aspri, brutture fisiche, perfino nel brigadiere tartassato da un tic quasi
deformante, e tante verità solitarie. Trattenute. Silenti. Ciascuno ha la
propria.
Così se proviamo a raccoglierle,
tipo i sassolini delle favole, dopo che l’autore si è divertito a disseminarle
tra muschio e arbusti, ecco che componiamo ciò che pare confondere le acque per
l’ennesima volta e che invece è la protagonista definita: la coralità. Essa
lancia i primi vagiti dentro un’osteria, si diffonde in un cantiere e poi
ancora conquista un paese, Borgodivalle, che non è solo lo spazio riempito da
un gruppo di case ammonticchiate, quello è troppo facile vederlo, ma tante proiezioni
che lo dilatano. Si sale allora verso rifugi
di latitanti, capanne di pastori, stamberghe di donne che somigliano a streghe
del medioevo. E poi si ridiscende nel bosco e si seguono dei binari che paiono
la ferrovia di “C’era una volta il West”. Dove vanno, dove finiscono? A ovest,
a est, verso il mare? Nel film c’era il Pacifico e qui può essere lo Ionio. Ma
non è detto.
In tutto questo, c’è una grande
assente: la cattiveria. Nessuno ne resta
intriso. Neanche l’assassino. Forse, paradossalmente, un po’ la vittima, un
ingegnere arrivato da Bari per supervisionare la nuova ferrovia e che se la
intende troppo, oltre che con gli operai votati alla stima professionale, con
le donne.
Gianni Mattencini crea una
formula da alchemico conoscitore di ingredienti, per dare al noir
riconoscibilità immediata, la pista del delitto d’onore, ma soprattutto per
restituirci centinaia di echi, frutto
della gente ma anche dei luoghi, dallo scorrere dei torrenti al belare
degli ovili. È questa diversità ricomposta, in definitiva, dentro la quale
tutti possono riconoscersi, a creare una distanza non di poche centinaia di
chilometri ma di anni luce dal regime, che in fondo seguiva la logica
esattamente opposta: l’affermazione di un depositario unico del potere e
dell’autenticità. Che bisogno c’era, in effetti, anche solo di accennare a
quella folle avventura.
Marco Caneschi