Foschia
di Anna Luisa Pignatelli
Fazi, 2019
pp. 208
€ 16,00
Una foschia che era soprattutto in me, che ottenebrava la mia giovinezza, in cerca di ideali e di verità, e ne vanificava l’audacia. (p.76)
Quando si ama irrazionalmente a volte si rimane invischiati in relazioni dannose e nocive, da cui non si riesce a uscire, in un perverso gioco tra la vittima e il suo carnefice. Altre volte questo rapporto si esaurisce tra le mura domestiche, una colla viscosa e appiccicaticcia che impedisce di prendere il volo. È esattamente quello che è accaduto a Marta, che spinta da un male incurabile, decide di raccontare in che modo la foschia l’abbia avvolta per anni, senza permetterle di respirare neanche dopo esserne uscita.
Marta è figlia di Lapo, un critico d’arte talmente assorbito dai suoi quadri da ignorare tutto ciò che lo circonda. Inclusi la moglie, la fragile Teresa che dell’arte amava cogliere gli aspetti più genuini (preferendo le tele di Piero di Cosimo a quelle eteree e perfette dell’«unico», come lo definiva il marito, Piero, il della Francesca autore della Pala di Brera), e i figli Marta e Antonio, abbandonati a una vita rupestre alla Lupaia, la cascina nella campagne fiorentine dove trascorrevano il tempo mentre lui teneva le sue lezioni all’Università di Firenze. Se Teresa e Antonio rimangono sullo sfondo, comprimari inconsistenti nella vita della ragazza, la narrazione in prima persona di Marta ci restituisce integralmente i pensieri ingarbugliati e contorti nei confronti della figura paterna.
Lapo è ingombrante nella sua assenza e l’intera esistenza di Marta è un continuo oscillare tra l’odio per il vuoto che lui lascia e la passione che mette per farsi apprezzare, da bambina adorante prima e adolescente poi, in un gioco perverso in cui non sono rari i casi in cui si atteggia a donna pur di fare notare il suo corpo all’uomo che le ha dato la vita. Non è difficile immaginare che questo continuo ammiccare al padre in chiave erotica risulti disturbante: il rapporto tra i due conosce un climax ascendente di anormalità nel momento in cui Marta e Antonio sono costretti dal padre a trasferirsi alla Torre del Salto, luogo austero di odio e indifferenza, entrando in una non-famiglia in cui la ragazza è sempre più sola. L'acme si raggiunge nell’estate della maturità di Marta, punto di non ritorno di questo rapporto malato, accentuato da una narrazione a tratti affettata, forzata, che non riesce a restituire completamente la veste di diario o di confessione che la protagonista vuole dare alle sue parole.
Anna Luisa Pignatelli, già conosciuta per Ruggine (Fazi, 2016), è un’autrice dallo stile violento e sofferto, e in Foschia le sue peculiarità di scrittura emergono con chiarezza. La lettura procede difficile, sia per il contenuto che per il modo, e viene pertanto da chiedersi se fosse generare questo fastidio l’intento primario della scrittrice: mentre si legge ci si sente avviluppati dalla stessa coltre che avvolge il cuore della protagonista, si soffre insieme a lei per la meschinità dell’umanità che la circonda, soprattutto perché a deluderla sono proprio le persone a lei più vicine. La famiglia viene spogliata di tutto l’affetto e viene mostrata per quello che è: un gioco di relazioni ambiguo e oscuro e in cui ognuno pensa solo a se stesso. Non c’è scampo all’egoismo e alla cattiveria e in questo mondo triste la foschia si trasforma in uno stato d’animo perenne, una condizione della mente e del cuore che non concede requie.
Federica Privitera
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