di Mario Bejor
a cura di Antonio Castronuovo
a cura di Antonio Castronuovo
Collana Lampi, Elliot Edizioni, 2018
pp. 64
€ 7,50
Uno studente di chimica, dall’aspetto tracagnotto e dalla barba rossa:
Dino Campana
Dino Campana
Tra i diversi testimoni che incontrarono Dino Campana a Bologna negli anni Dieci del Novecento, Mario Bejor ha un ricordo davvero singolare di quel periodo.
Pubblicato per la prima volta nel 1943, e solo oggi rivisto e pubblicato da
Elliot, il libro di Bejor ci racconta di uno
studente di chimica, dall’aspetto tracagnotto e dalla barba rossa.
“Ecco mettersi a capo del gruppo uno, improvvisamente apparso: aspetto campagnolo, tarchiato, capelli fluenti sulle spalle alla decadente, barba corta rossigna, cappellaccio tondo e stivali rozzi; con voce stentorea, alternata da toni gravi ed acuti” (p. 9)
Attratto più dalla letteratura che dalla chimica, Campana amava trascorrere
il suo tempo tra i caffè, i vizi e le zuffe. Di indole, a volte troppo esuberante,
aveva non piccole difficoltà anche nel trovare alloggi e camere in affitto a
Bologna.
“Da via Zamboni, dove abitava, si trasferì a porta Castiglione, dallo stesso affittacamere che già albergava Olindo; e mi sembra ricordare fosse il buon Fabbri stesso a toglierlo d’impaccio e ad offrirgli parte della propria camera in un momento in cui si trovava privo di alloggio. In via Zamboni, angolo via del Guasto, aveva già fatto parlare di sé – sedie all’aria, vetri infranti, costole ammaccate, intervento della polizia – così come un Villon od un Michelangelo da Caravaggio – ed era stato invitato ad andarsene, dopo aver trascorso due o tre giorni in guardiania. Bagaglio non ne possedeva, libri nemmeno; portava tutto in sé: il trasloco fu facile” (p. 13).
Nella breve ma ricca descrizione di Bejor non mancano poi i richiami alla
città di Parigi, capitale considerata “centro della più alta ed intesa
espressione letterario-arstistica dell’epoca”, dove Campana visse cinque anni, dopo
essere fuggito da Bologna, saltando su di un treno con poco denaro, ma con la
sola chiara idea di raggiungere l’agognata meta, la Francia.
Ma fu a Bologna che grazie all’amico Federico Ravagli escono alcuni dei
suoi scritti: sebbene fossero stati pubblicati con deplorevoli pseudonimi,
quali Campanone, Campanula, Din Don, diversi di questi testi entrano a far parte,
riveduti, di quella bellissima opera che è Canti Orfici.
Appassionato di filosofia e amante della poesia (i suoi interessi
spaziavano da Nietzsche a Verlaine), Campana
ebbe un rapporto speciale anche con l’arte:
“M’invitò ad una visita alla Pinacoteca. Improvvisamente, all’ingresso, mi stese la mano e disse: arrivederci all’uscita. In presenza dell’arte sentiva il bisogno d’esser solo, perché in quella voleva fondersi” (pg. 19)
Un uomo burbero, che ben poco faceva per rendersi simpatico, ma capace poi
di stupire inaspettatamente, come quando una sera in un locale offrì all’incredula
compagnia di giro da bere e da mangiare con perfino una mancia al cameriere,
lui che di solito era, per così dire, molto attento alle spese.
Grazie a Mario Bejor abbiamo la
possibilità di leggere un intenso scampolo di vita di Campana, uno spaccato nel quale la
fedele testimonianza registrata di eventi, di discorsi e di memorie ci restituisce una figura complessa in cui la fiamma ardente e pura per la poesia si intreccia
a un groviglio di forze tortuose ed evanescenti. Le stranezze e gli eccessi di
un animo inquieto e vagabondo si coniugano con una profonda personalità
artistica, i cui germogli erano ben visibili sin dai tempi giovanili, quando
stravaganze ed esagerazioni prefiguravano i tratti inconfondibili di un artista onirico
e visionario.
Una sensibilità nomade, ma vividamente
irrequieta e ansiosamente anomala.
Sbalorditivamente potente e straordinariamente acuto, canta ciò che lo
circonda, alla ricerca di infiniti significati e di dimensioni nascoste.
Creatore formidabile di immagini, custode di dedali misteriosi, il
suo spirito vibra libero tra attimi inarrestabili e fremiti vulcanici di
vita.
“Dopo il 1916 non lo rividi più… Era un essere eccezionale: da favola. Elemento di pura poesia – espressione artistica in un turbinio di vita zingaresca – non può essere avvicinato che a Rimbaud o Verlaine, Toulouse-Lautrec o Gauguin, e più in alto ancora – a suo fratello in inspirito Vincent van Gogh” (p.30).
Silvia Papa
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