di Eugenio Capozzi
Marsilio, 2018
pp. 206
€ 17
La visione eticista della storia coloniale poneva le basi per una serie di vincoli restringenti a tutte le branche discorso pubblico in tema di rapporti tra culture. L’Altro rispetto all’Occidente doveva necessariamente, in quanto alienato dall’imperialismo, essere raffigurato come buono, innocente, vergine. Ogni confronto di civiltà, di modello socio-politico tra paesi industrializzati ex coloniali e il terzo mondo non poteva essere concepito come astrattamente oggettivo: i pregi del secondo andavano ricondotti alle origini autoctone, mentre i difetti dovevano essere addebitati a cause esterne, cioè alle colpe dei primi. (pp. 77-8)
Nella citazione riportata è racchiusa, in una summa estrema, il pensiero al fondo di questo saggio
storico-politico-filosofico. Il concetto di base, infatti, è che, se oggi ci
ritroviamo con «Il finale della Carmen riscritto.
Una petizione per rimuovere dal Metropolitan di New York un quando di Balthus
contestato per presunta pedofilia. Ovidio bandito dalle università americane
perché offensivo e violento» (bandella di sinistra) c’è un motivo, e quel
motivo è da rinvenire nel senso di colpa dell’occidente (e
nello specifico dell’Europa) per l’eurocentrismo dell’epoca moderna, per il suo
passato coloniale, per l’imperialismo e, last
but not least, per la catastrofe del nazismo e della seconda guerra
mondiale.
L’avvio dell’epoca contemporanea post colonialista e post guerra
fredda, infatti, avrebbe coinciso con una diversa percezione dell’occidente il
quale, con la sua pretesa di dominio globale e di un’esportazione forzata della
democrazia e dei diritti civili e umani, avrebbe percepito se stesso come l’elemento
inquinante del mondo, la causa di tutte le catastrofi che, anche in buona fede,
ha causato a questo pianeta: lo schiavismo, le guerre, l’inquinamento globale,
la negazione dei diritti dei popoli assoggettati attraverso il mancato
riconoscimento della loro specificità. In una visione altamente manichea l’occidente,
dapprima depositario di una verità inestinguibile, avrebbe visto se stesso come il
male e gli altri mondi (l’oriente, ma anche il sud del mondo) come il bene. «Alla
base di quel sentimento stava l’idea diffusa secondo cui le culture dei popoli
extraeuropei assoggettati erano depositarie di un’“innocenza” originaria
macchiata dai dominatori» (p. 61).
La riscoperta dell’altro, inteso come cultura depositaria di riti,
verità e concezioni del mondo diversi dai nostri ma altrettanto validi,
coincide quindi con la necessità di porre la Weltanschauung occidentale sullo stesso livello delle altre, e su
questa argomentazione Capozzi intravede un errore di fondo: l’occidente, nel
suo tentativo di offendere e denigrare se stesso per innalzare l’altro, getta nel calderone tutto ciò che è altro-dall’occidente,
coagulando insieme le differenze infinite fra culture che sono,
di fatto, molto diverse e spesso in contrasto fra loro. È proprio in questo
passaggio che, secondo l’autore, l’occidente compirebbe l’errore fatale che
porta al politicamente corretto: mescolando insieme ciò che è diverso, «un diverso da amare, accogliere e imitare a
prescindere» (p. 74), si arriva a considerare ciò
che è diverso dall’opinione corrente/occidentale come giusto e valido, dunque da apprezzare a prescindere,
dunque da salvaguardare in ogni modo.
L’altro, l’esotico, il diverso diviene modello da imitare. Da qui,
afferma Capozzi, l’interesse (a volte patologico) per la
riscrittura della storia e la necessità di non offendere nessuno ma anzi
rassicurare tutti mostrando come anche gli assenti dalla storia con la s
maiuscola possono avere la loro parte. Cosa apprezzabile senza dubbio ma che,
in determinate occasioni, può sfociare nello stravagante. Agli esempi “alti” forniti
dall’autore, in effetti, mi verrebbe da citare la reinterpretazione al femminile del classico cinematografico Ghostbuster nel 2016, per non parlare della controversia
(apparentemente approdata a nulla di fatto) riguardo la possibile rimozione
del personaggio di Apu nei Simpson, ritenuto troppo stereotipato e
offensivo della cultura indiana; proprio di questi giorni inoltre è la notizia
secondo cui il prossimo Superman, da sempre appannaggio della cultura bianca
occidentale, potrebbe essere interpretato
dall’attore di colore Michael B. Jordan.
Capozzi, dopo i primi capitoli volti a dimostrare la validità della
sua tesi, si sposta ad analizzare la situazione attuale indagando vari settori
della cultura occidentale: dalla nascita dei radical chic negli anni settanta,
i quali «non sposava[no] la causa delle Black Panthers […] in base a un’analisi
ideologica, ma perché vi intravedeva[no] un modello di vita alternativo alla
propria società e per questo preferibile» (p. 74) tout court, all’esplosione del veganesimo e dell’animalismo, che hanno
come base la concezione secondo cui la «centralità
del[l’uomo] sulla Terra sia figlia della razionalità imperialista occidentale»
(p. 161); dall’accettazione indiscriminata di qualsiasi modello religioso possa
opporsi al cristianesimo ai gender
studies e all’ideologia gender
che rifiuta ruoli e identità fisse, i quali non possono in alcun modo essere
interpretati «come stati naturali ma come “atti performativi”, per usare l’espressione
di una delle principali caposcuola dei gender
studies, Judith Butler» (p. 185).
A tal proposito c'è da dire che, sebbene questo voglia passare come un testo imparziale riguardo tutti
i fenomeni elencati, a mio avviso nelle parole di Capozzi si può scorgere una
critica velata al tentativo di valorizzare le culture altre rispetto
a quella dominante dell’uomo bianco borghese, cristiano ed eterosessuale:
questa presa di posizione, rinvenibile nell’uso di un linguaggio non sempre
neutro e nell’inserimento all’interno del saggio di commenti al limite con l’opinione
personale, è, a mio avviso, accettabilissima quando si tratta di criticare il
politicamente corretto in quanto tale e la sua deriva “buonista” e “populista”;
meno piacevole può risultare nel momento in cui si vanno ad attaccare i
risultati ottenuti attraverso decenni di sanguinose battaglie sui diritti
civili. Faccio un solo un esempio relativo a questioni bioetiche e al
transumanesimo: «nell’attesa, però, del compimento di questa promessa
mirabolante la cultura neo-progressista incoraggia l’idea che la malattia, la
sofferenza, il disagio fisico e psichico possano essere affrontati attraverso
pratiche come il testamento biologico, la sospensione delle terapie per
situazioni di disabilità cronica, l’eutanasia attiva e passiva, il “suicidio
assistito”» (p. 189, notare l’uso della locuzione “promessa mirabolante” a
celare l’opinione personale).
Al di là di quest’ultimo aspetto, tuttavia, questo resta un testo molto
interessante che, quantomeno, ripercorre la storia della cultura occidentale
dal dopoguerra a oggi e ne traccia le conseguenze immediate sulla nostra
contemporaneità.
David Valentini
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