di Åsa Grennvall
Hop!, 2014
p. 83
€ 11.00
Titolo originale: Sjunde Våningen / Seventh floor
Traduzione di Laura Tonani
Ci sono letture che creano nel lettore un senso di malessere e disagio, una sensazione disturbante che cresce con il susseguirsi delle pagine e che induce a porsi domande a tratti scomode. Questo è quello che succede con 7° piano, graphic novel dolorosamente autobiografico dell'illustratrice svedese Åsa Grennvall.
La storia inizia per la protagonista in un momento di riscatto esistenziale: il trasferimento lontano da casa per frequentare la scuola d'arte, un sogno realizzato che ha il potere di attenuare anche le insicurezze del passato. La diversità (estetica, caratteriale) per cui a casa era bollata diventa qui elemento di attrattiva per i compagni di corso: "lì tutto quello che ero (che altrove era ritenuto sbagliato, strano, brutto) era considerato figo" (p. 8).
È l'occasione perfetta quindi per ricominciare lasciandosi alle spalle le fragilità, per iniziare a familiarizzare con una sé adulta e più consapevole. L'acme dell'appagamento viene raggiunto quando Nils, attraente e benvoluto, tra tutte le ragazze che potrebbe avere sceglie proprio lei, che si sente quindi gratificata, protetta, finalmente a suo agio.
Poco importano allora i segnali inquietanti, le gelosie eccessive, l'amore soffocante, il fatto che Nils sia tanto affascinante quanto collerico e manipolatore. Poco importa che le chieda di rinnegare il passato, di respingere gli amici e i famigliari, di rinunciare alle cose che ama e di cambiare completamente per lui. Con angoscia crescente noi vediamo Åsa immergersi sempre più a fondo in un rapporto disfunzionale, basato su continue umiliazioni e soprusi psicologici, speriamo che si ribelli e lo lasci e la vediamo invece accampare giustificazioni, cercare scusanti con cui assolverlo. Perché, a ben guardare, i due hanno qualcosa in comune (e il lettore, ma soprattutto la lettrice, sobbalza sulla sedia nel leggere nero su bianco, letteralmente, una realtà di dipendenza emotiva quasi insopportabile):
Nils ed io andavamo d'accordo su molte cose, ma su una in particolare: che c'erano molte cose che non andavano in me. La materia prima c'era, ma entrambi non sopportavamo la mia personalità. Nils mi ha aiutata a cambiare e, alla fine, ho accettato di essere amata. (p. 29)
Inorridiamo perché ci ricordiamo che l'accettazione della violenza nasce da qui: dalla convinzione subdola di non essere abbastanza, di non avere alternative, di doversi conformare alle aspettative di chi ci vuole male perché ci considera un suo possesso. Il maniaco del controllo parte da piccoli gesti – talmente piccoli che è facile non notarli, o sminuirne la portata: non gli piacciono le donne col rossetto, e noi smettiamo di usare il rossetto; non gli stanno bene le foto della nostra giovinezza negli spazi comuni, e noi le nascondiamo nei cassetti; ci convince che solo lui può amarci, così imperfette come siamo, e che solo lui sa cosa sia meglio per noi, e nel giro di poco iniziamo a pensare che questa sia la verità. Noi, che ci crediamo forti e immuni, ci rendiamo conto che in una realtà parallela, in circostanze solo parzialmente diverse, potremmo essere, o avremmo potuto essere Åsa. Per ricordarci questo, ogni tanto l'autrice ormai cresciuta (e finalmente libera) interrompe la narrazione per rivolgersi direttamente a noi: perché, lei lo sa, tutti noi ci chiediamo come abbia potuto essere così cieca, così ostinata nel portare avanti un rapporto sbagliato, morboso. E se lo chiede anche lei, che pure l'ha fatto.
La spirale della violenza è inarrestabile e passa attraverso la sistematica decostruzione dell'identità e delle certezze della donna. Nel volume Hop! viene mostrata attraverso il tratto nitido, spietato dell'autrice stessa, nel suo desiderio di non risparmiarci niente, di mostrarci le cose nella loro squallida brutalità. "Ti piacciono quei tatuaggi? Ne vai fiera? Sai che c'è? Mi fanno schifo! [...] Sono dei tatuaggi da puttana, ecco cosa sono! [...] Bene... devo ribattezzarti! Ecco ti battezzo con il nome di ‘troia’” (pp. 43, 44), attacca Nils durante l'ennesimo litigio. Il primo colpo stordisce Åsa come il lettore, eppure nessuno dei due ne è davvero sorpreso. Le regole sono chiarissime, le conosciamo tutte:
Regola numero 1:
Se ti picchia anche una sola volta, lascialo.
Regola numero 2:
Se ti picchia anche una sola volta, lascialo.
Ma per andare dove? (p. 45)
Ciò che ad Åsa Grennvall riesce meglio, in questo volumetto duro è importante, è mostrare la solitudine che la violenza porta con sé: la donna che subisce per giorni, mesi, che soggiace alla propria paura, che si rende invisibile per non arrecare il minimo disturbo ed evitare ulteriori soprusi, in qualche modo smette di esistere al mondo. Rimane una figurina che si staglia contro un fondale desolato e indifferente: iconiche in tal senso sono le immagini che la ritraggono nell'appartamento di lui, al settimo piano, sagoma isolata contro la finestra, emblema del vuoto che la circonda. Guardare in basso, verso la strada lontana, e sentirsi tentata di fare quel passo in più è inevitabile (e il fatto che Åsa riesca a non cedere non ci fa dimenticare che tante invece non ce la fanno). Anche la ribellione, che per l'autrice è resa possibile da uno slancio supportato dalle persone care, non è ovvia, né scontata. La fuoriuscita di Åsa dal tunnel, che è impervia, perché obbliga a contare i brandelli in cui è stata ridotta la propria identità e cercare faticosamente di rimetterli insieme, non è purtroppo l'unico esito credibile, e tante – troppe – sono le storie di donne che a una simile violenza finiscono per arrendersi, abituarsi, soccombere. Anche il migliore dei finali possibili non può essere un semplicistico lieto fine: ci sono altre donne come Åsa che cederanno al fascino perverso di Nils, ci sono altri uomini che sfrutteranno come lui le insicurezze di ragazze ingenue, e i fantasmi per le vittime non svaniranno mai.
Il disagio che si prova alla lettura di 7° piano non è terapeutico, ma è necessario. Non ci lascia, una volta chiuso il volume, perché sappiamo che la storia che abbiamo appena letto in qualche modo ci riguarda. Ce lo ricorda anche Amnesty International Italia, che nella postfazione consiglia questo libro per tenere sempre a mente quanta strada c'è ancora da fare per cambiare l'immaginario sociale relativo alla violenza di genere. Il volume di Åsa Grennvall, raccontato meravigliosamente anche nel booktrailer vincitore nel 2015 del premio Cortinametraggio, riesce a restituire con l'essenzialità del disegno e della narrazione la storia di una violenza inaccettabile eppure troppe volte accettata, facendo nascere proprio dal nostro disagio una volontà di ribellione che deve essere alimentata perché le cose possano finalmente cambiare.
Carolina Pernigo