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#CritiCINEMA - Il vizio della speranza, tra libro e film

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Il vizio della speranza 
di Edoardo De Angelis
Mondadori, 2018

pp. 156
€ 18



Quello della speranza è un vizio, quando si vive in un posto in cui solo il desiderio di qualcosa di migliore è uno spreco di tempo, un vaneggiamento, una pia illusione.
E se sei nato a Castel Volturno, e ti porti dentro un'oscura condanna dovuta a una violenza subita durante l'infanzia, è quasi sciocco pensare soltanto di poter sopravvivere alla lotta del vivere quotidiano.
Pure i sogni, bisogna poterseli permettere.

E la giovane Maria, infagottata in un cappotto ricavato dalla coperta nella quale l'hanno avvolta alla sua seconda nascita, lo sa «perché è dura e immunizzata al vizio della speranza che fiacca la volontà. Non si lascia contagiare lei, sa che deve attraversare il tempo senza sogni e senza desideri, un giorno dopo l’altro».
Ma quando il muro andrà in pezzi, la speranza è pronta a crescere fra le crepe, come un'erbaccia.

Il vizio della speranza è il titolo dell'ultimo film di Edoardo De Angelis, e queste parole sono tratte invece dal suo ultimo, omonimo, libro, edito Mondadori.
Usciti in contemporanea, fra le due opere c'è un rapporto osmotico abbastanza peculiare.
Nel libro la storia di Maria e del film non è che un capitolo della più ampia biografia dell'autore. Che racconta le sue origini, dall’infanzia e adolescenza - passata con figure femminili fortissime (su tutte, la nonna Mena) che troveranno riscontro nelle donne protagoniste dei film - passando per l’apprendistato artistico, gli anni degli studi, gli incontri, la crescita umana e professionale, in un modo scanzonato e pieno di un senso dell’umorismo, sornione e smargiasso, prettamente campano.

Il libro ne risulta un gradevole impasto di vita personale e riflessioni sul mestiere, sull'essere regista e sull'esserlo nella regione italiana in cui Edoardo De Angelis è nato, la Campania.
Con quell'allegria un po’ disperata di chi il sud lo abita sapendo che la propria terra, bella e martoriata, la deve accettare e amare così com'è, come si ama allo stesso modo un figlio zoppo.

Ma se in Indivisibili, il film precedente, del 2016, questo sguardo filtrava più incisivo, sorprendente, sapeva scartare l’aspettativa pur cavalcando alcuni stereotipi (la canzone neomelodica, l’esasperazione del rito religioso), ne Il vizio della speranza si rarefà in maniera eccessiva.
La “spiritualizzazione” di una vicenda (quella delle due sorelle nate siamesi e sfruttate dall'ambiente che le circonda come fenomeni da baraccone, prima, quella di una giovane sola che scappa dalla sua prigione, ora) nel film precedente nasceva spontanea per accostamento grottesco; in questo ultimo lungometraggio diventa, a tratti e per eccesso di spinta, pesante e manieristica.


Pur mantenendo l’habitat, lo sguardo si fa più misticheggiante su questa no man’s land solfurea che corre lungo il fiume Volturno e la temperatura emotiva risulta diversa. La scrittura, condivisa con Umberto Contarello, sconta una sentenziosità che a tratti stona con la spinta "di pancia" della vicenda.

Un grande aiuto viene al film dalle musiche di Enzo Avitabile, calzanti melodie a cavallo fra la tradizione napoletana e l’Africa, che propiziano l’immersione in un ambiente ostile e desolato, dalla fotografia acquosa e cupa di Ferran Paredes Rubio e dalle interpretazioni degli attori principali, Pina Turco e Massimiliano Rossi.

Carlo Pengue (Massimiliano Rossi) è "l’unico essere umano" che Maria (Pina Turco) conosca; è stato chiave di volta del suo passato e, come un novello San Giuseppe, si farà carico anche del futuro.
Ma se la religione è una faccenda strana, è la fratellanza il vero culto a cui tendere, pur nelle difficoltà di una lotta per la sopravvivenza che rende ciascun uomo (e donna) lupo per l’altro.

Giulia Marziali