Il mostro della memoria
di Yishai Sarid
edizioni e/o, 2019
pp. 139
€ 15,00
Titolo originale: Mifletzet Hazikaron
Traduzione di Alessandra Shomroni
Ancora una volta è il dovere, l'urgenza della testimonianza a muovere il narratore di questo breve volume: "io sono il contenitore di questa storia. Se le crepe dentro di me si allargassero fino a provocare una rottura, la storia andrebbe persa" (p. 9). Proprio per questo lui si sente in dovere di scrivere una lunga lettera al direttore dello Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah a Gerusalemme. Gli scrive in veste di "incaricato ufficiale della memoria", per spiegare un accaduto che si chiarirà meglio soltanto nel corso del romanzo, in un crescendo di tensione che non verrà dissipato completamente neanche con la conclusione (se così si può chiamare) della sua esposizione. Anche l'identità del narratore verrà costruita un po' alla volta, per accumulo di dettagli e informazioni, attraverso uno stile incisivo e paratattico che restituisce il clima emotivo dello scrivente. La sua scelta di dedicarsi allo studio della Shoah è stata indotta dalle circostanze, ci tiene a chiarire subito, quasi a discolparsi. Lo vediamo quindi frustrato nella sue ambizioni originarie, accumulate tra le pagine e subito scartate o rese inaccessibili dagli eventi, a suggerirci quanto più pesante possa essere stato poi il sentiero intrapreso:
"Mi vedevo [...] mentre trascorrevo le giornate in una pigra eleganza, con un salario modesto ma dignitoso corrispostomi dallo stato" (p. 10);
"mi vedevo seduto davanti a un caminetto a Oxford, o a Boston, mentre invecchiavo in maniera piacevole e dignitosa e non mi sentivo più tanto dispiaciuto di essere stato bocciato al concorso del ministero degli Esteri" (p. 11);
"aspiravo a un'esistenza pacifica, tranquilla, durante la quale mi sarei occupato dei tempi antichi, di vicende concluse, che non suscitano sentimenti particolari in nessuno" (p. 11);
"avrei voluto continuare a fluttuare nella mia vita come in un placido lago, senza ansie né emozioni" (p. 12).
La storia moderna lo spaventa, gli pare "una cascata terrificante, possente, turbinosa" (p. 11), ma alla fine non gli resta alternativa – per poter accedere alla carriera accademica necessaria a mantenere la moglie, e poi il figlioletto in arrivo – che accettare quella che pare quasi una condanna e "aggregar[si] al carro della memoria" (p. 12). Si specializza quindi sui meccanismi dello sterminio nei lager tedeschi, e si scopre bravo, accurato, una perfetta macchina per la ricerca. Non si cura degli avvertimenti che lo mettono in guardia dal sottovalutare il peso emotivo di un simile lavoro e, del resto, chi lo osserva nota facilmente in lui la discrepanza tra le grandi conoscenze e "una certa mancanza di sentimento, di considerazione per le vittime" (p. 16). Per arrotondare la scarna borsa di studio del dottorato, il narratore finisce per accompagnare scolaresche, e poi gruppi di militari o politici ebrei in Polonia, nei campi di cui è diventato presto un esperto. Eppure la cosa che gli risulta più difficile non è tanto la visita sui luoghi in cui "odio, malvagità e interessi economici" hanno cancellato "l'illusione chiamata uomo" (p. 29), quanto la superficialità e l'inconsapevolezza dei visitatori. I commenti sciocchi, o caustici, la pietà facile per le vittime, l'indifferenza per i carnefici, le ritualità attraverso le quali ci si libera la coscienza e si può andare la sera a divertirsi come se nulla fosse... tutto contribuisce a scavare un solco nell'anima del protagonista, che persiste però nell'ignorare tutti i sintomi: il senso di oppressione e angoscia, il desiderio forte di sconvolgere i gruppi accompagnati, di scuotere le loro coscienze, la violenza verbale crescente, verso di loro e verso Dio. Non si rende conto, incauto, che il mostro della memoria esige un'"offerta sacrificale" (p. 28) e che lui non l'ha ancora pagata. Pare essere inconsapevole, il narratore, della profonda verità che gli comunica, in forma di consiglio, un pragmatico archeologo: "È un lavoro. Lo si fa e si va via. Altrimenti c'è da impazzire. È troppo terribile" (p. 74).
Nel coinvolgimento emotivo sempre maggiore, il protagonista si sente sempre più ambiguamente attratto dai carnefici, da un'ideologia della forza come unico strumento di sopravvivenza, proprio mentre aumenta la sua compassione viscerale per le vittime, che rivede vivere (e morire) davanti a sé: "tutto lì ancora geme, quegli spazi vuoti gridano verso di noi, come fate a non vederli? Ecco una madre, un nonno, un bambino" (p. 30) o ancora, "quando finii di riempire gli spazi riservati a ogni lager vedevo mucchi di morti davanti a me" (p. 84). La barbarie si rinnova davanti ai suoi occhi apparentemente lucidi, ma in realtà sempre più allucinati, e dimostra implacabilmente che il mostro che si credeva sconfitto è ancora vivo, ancora letale:
"Cos'è successo?" volle sapere Idò sbarrando gli occhi, preoccupato. In passato c'era un mostro che uccideva le persone, dissi. "E tu lotti contro questo mostro?". Mi domandò entusiasta. Il mostro è già morto, cercai di spiegargli. È rimasto solo il suo ricordo. (p. 63)
Ma se il mostro non è morto, se reclama prepotente il suo tributo, ogni sforzo di resistenza è vano, o così almeno risulta dall'esposizione secca, mai edulcorata, e quindi tanto più feroce, con cui l'io narrante descrive il suo sprofondare verso l'abisso.
Idò mi tese un disegno che aveva fatto per me. Raffigurava un omino che affrontava un mostro con tante teste e mani e braccia colorate di nero e di rosso. "Questo sei tu, papà" esclamò, "che lotti contro il mostro". (p. 79)
La lotta è impari, e la lettura difficile, anche perché le domande sollevate dal testo – in maniera il più delle volte indirette, traversa – sono complesse e non trovano risposta, non esplicitamente almeno. Il confronto con la memoria per la società israeliana contemporanea obbliga a una dolorosa presa di coscienza, all'esplorazione di un terreno ambiguo come quello che riguarda i rapporti tra le vittime e i carnefici. Il mostro giace lì, tentatore, e della sua presenza, come dei pericoli che porta con sé, bisogna prendere coscienza. Soltanto un confronto con l'alterità irriducibile, che è al contempo anche specchio deformato di sé, può portare nel volume allo scioglimento di un senso di inquietudine che scorre sotto la superficie, crescendo da una pagina all'altra e tenendo in sospeso il lettore fino a un finale in qualche modo previsto, ma che finisce per risultare comunque inatteso, violento e sconvolgente. Una lettura, questa, dura eppure necessaria, per interrogarsi non soltanto sulla reale identità del mostro, sulle maschere che può indossare, ma anche sugli strascichi del suo agire devastante, sul lavorio incessante della memoria.
Carolina Pernigo