Storia di Ásta
di Jón Kalman Stefánsson
Iperborea, 2018
Titolo originale: Saga Ástu
Titolo originale: Saga Ástu
Traduzione di Silvia Cosimini
pp. 479
€ 19,50 (cartaceo)
I
tuoi occhi che un tempo mi illuminavano sono diventati un buco nero – lo spazio
che separa l’amore e l’odio è più o meno lo stesso che si trova tra la vita e
la morte. (p. 461)
Il romanzo di Stefánsson è talmente ricco e stratificato che è impossibile tanto scrivere una recensione che gli renda davvero giustizia, quanto lasciarlo andare una volta letta l'ultima pagina. Le prime avvisaglie si hanno già dal principio, con una dichiarazione programmatica inusuale, che rovescia le aspettative consuete:
Le pagine che seguono raccontano la storia di Ásta, che un tempo è stata giovane, e che ormai è piuttosto anziana nel momento in cui queste righe vengono scritte, o meglio, scribacchiate, perché qui accade tutto di fretta, anche quando, a volte, la storia procede con tale lentezza che il tempo è quasi sul punto di fermarsi. (p.9)
La storia di Ásta è dunque lenta, quasi immobile, perché deve rappresentare lei, ma anche il contesto in cui è inserita, le relazioni che ha intessuto: infatti “com’è possibile raccontare la storia di una persona senza toccare anche le vite che la circondano, l’atmosfera che sostiene il cielo – e soprattutto, è legittimo farlo?" (p. 9). Il narratore, forse lo scrittore stesso (ritiratosi a vivere e scrivete sullo Strönd ormai popolato di turisti, in cerca di risposte o forse solo di quiete) confessa subito, con concreta ironia più che con reale spirito autocritico, la sua tendenza alla divagazione, a perdere il filo, rivolgendosi direttamente al lettore con quello che sarà solo uno dei molteplici inserti metanarrativi del testo. Si sa dunque fin dall’inizio che per arrivare in fondo si dovrà investire il tempo richiesto da una prosa lenta, magmatica e avvolgente. Ci saranno però delle sorprese, nascoste tra le pagine: intanto l’Islanda, che chi ci è stato, chi l’ha amata, ritroverà in tutta la sua poesia, la potenza dei suoi elementi:
Qualcuno sostiene che i Fiordi Occidentali assomiglino più a un brano musicale che a un paesaggio e che per questo sia inutile descriverli a parole, consunte e svuotate da molte migliaia di anni di utilizzo [...; i] fiordi che si aprono come un urlo davanti al mare gelido e ai suoi abissi, alcuni sono un odio silenzioso, altri un sospiro quieto, ma forse la maggior parte sono un po' di tutte queste cose. Inutile descrivere i monti che si innalzano, così ripidi che alcuni sembrano voler portare con sé la terra verso il cielo. (p. 60)
È proprio nei Fiordi Occidentali che viene mandata la protagonista ancora adolescente, per correggere con l’isolamento e con il lavoro carattere e comportamenti, secondo una prassi in uso nell’Islanda del tempo. È qui che la ragazzina inizierà a crescere davvero, grazie ad Árni, un uomo ombroso dalla tenerezza rude e celata, sua madre Kristín che si sveglia ogni mattina in un diverso momento del passato, e soprattutto Jósef, “un ragazzo di duemila anni” (p. 182), con dentro “un tale fervore che [fa] paura” (p. 415).
È pesante il fardello che grava su Ásta, a partire dal suo nome, derivato da quello dell’eroina infelice di un romanzo di Laxness: “Ti battezzo Ásta perché un'altra Ásta è morta in una brughiera fredda, tossendo sangue, sull'altare di suo padre” (p. 13). Ma Ásta, privato della lettera finale, è anche il termine islandese per indicare l’amore (ást) e proprio dal grande amore tra la bellissima Helga e Sigvaldi nascerà la nostra protagonista. Eppure "una ragazza di appena diciannove anni non si trova nello stesso punto dell'esistenza di un uomo che ha passato i trenta" (p. 14), ci ricorda subito e quasi per caso il narratore, interrompendo un momento di grande felicità per gli amanti. Questo ci fornisce fin dall’esordio alcuni indizi circa la linea di sviluppo della trama: il romanzo si apre infatti come una storia, più storie, di amori falliti. Non conosciamo ancora i dettagli, ma sappiamo che Sigvaldi terminerà la sua vita lontano da Helga, e che Ásta scriverà lettere appassionate a un uomo amato che ha avuto il bisogno di andare, forse spaventato dagli "slanci eccessivi" e dall'"egoismo" di una donna che non è mai riuscita ad aprirsi del tutto e che pure, a distanza di tempo – visti i vani tentativi di "sterilizzare" la memoria col silenzio – spera ancora in un suo ritorno.
Sa bene, il narratore, che l’impresa a cui si accinge è di fatto impossibile: come si può sperare di mettere su carta un'intera esistenza? “Certo non è possibile, non più, sempre che mai lo sia stato, raccontare per filo e per segno la vita di un essere umano, dalla culla alla tomba” (p. 37). In questo senso, abbandonare la cronologia per seguire le libere associazioni del pensiero e del ricordo, gli impulsi emotivi dati dall'urgenza dei sentimenti, non è forse la cosa più sensata da fare, è anzi sicuramente un errore (non è certo un caso che, etimologicamente, l'errare rimandi a un vagare lontani dalla retta via, come avviene continuamente all'interno del romanzo). Eppure, come commenta la voce narrante, quasi cercando la comprensione del lettore, "senza errori, è ovvio, non c'è vita" (p. 38).
La storia di svilupperà dunque assecondando una narrazione ondivaga, intermittente, lungo quattro distinti piani narrativi: quello in cui si muove lo scrittore, che vive isolato e afflitto da dubbi di cui continuamente ci mette a parte; quello in cui un Sigvaldi sessantenne, disteso sul marciapiede in seguito a una brutta caduta e prossimo alla morte, ricorda il passato in modo discontinuo, per lampi e balzi della memoria, in particolare il rapporto con il fratello poeta (la cui biografia per molti punti ricorda da vicino quella dello stesso Stefánsson); la storia di Ásta, a sua volta raccontata senza seguire l'ordine temporale; infine la raccolta delle sue lettere all'amore lontano, che ci riportano a un presente in cui la donna è ormai anziana.
Quella che nel romanzo pare essere la condanna di Ásta è una forte somiglianza con la madre, che la oppone al resto delle persone, più stabili ed equilibrate. Anche Helga è stata tutta impeto, tutta passione, e si è bruciata nella sua immaturità egocentrica. A più riprese Ásta rischia di fare la stessa fine, sacrificando al proprio egoismo le relazioni più importanti della sua vita, nascondendo dietro a una facciata di indifferenza (per la quale più volte viene accusata di essere "senza cuore") tanto il dolore quanto l'amore. Il suo fallimento pare essere in qualche modo inscritto in quello della relazione tra i suoi genitori, troppo visceralmente diversi per poter essere compatibili. Helga è infatti capricciosa e inquieta, e vive con angoscia la sua incapacità di conformarsi alle aspettative del mondo, alla prigionia di una vita da moglie e madre:
Quei maledetti extraterrestri si sono dimenticati di venire a prendermi quando avevo diciannove anni per rendermi immune alla routine. Si sono dimenticati di me. Si sono dimenticati di disconnettermi il desiderio di libertà e di avventura. E adesso è troppo tardi, sono troppo vecchia. Tu sei libero, perché non vedi la prigione che ti circonda. Io sono prigioniera, perché vedo le sbarre. (p. 295)
Dal canto suo Sigvaldi, pescatore e imbianchino, vive vittima di una perenne sensazione di inadeguatezza, paralizzato dall’eccesso di vita e di bellezza che avvolge la compagna:
temeva di non essere… all'altezza per Helga. Di non essere degno. Di non avere vita a sufficienza, dentro. Di non avere abbastanza vibrazioni, avventure, di avere una mentalità troppo pesante, incapace di prendere il volo. Gli extraterrestri devono avergli somministrato una dose troppo forte. Perché Helga ha bisogno di vita, è fatta così, non può farci niente. (p. 297)
E le incapacità dei genitori diventano per la figlia, in modi diversi abbandonata da entrambi, una “maledizione famigliare che aveva nel sangue” (p. 87; questa, del resto, è la catena che vincola tutti i personaggi e da cui nessuno pare potersi liberare). Per questo Ásta vive "sotto mentite spoglie", bloccata da un senso di predestinazione che diventa condanna e che la spinge alla fuga ogni volta che le cose si fanno serie – per paura del fallimento. A questa paura ha sacrificato persino Jósef, "l'unico che non ha mai perso la poesia" (p. 401), la sua luce, il suo amore – ribadito in una lettera da Barcellona che potrebbe farsi emblema di tutte le lettere d'amore.
Con uno stile estremamente caratterizzato, pastoso, in cui si intrecciano fatalismo e pragmatismo, lirismo e concretezza, Stefánsson ci accompagna nella ricostruzione progressiva di un puzzle dalle geometrie complesse, in cui non siamo noi ad avere il controllo sul sacchetto dei pezzi, che ci vengono forniti un po’ alla volta, con sottile maestria. Nel romanzo c'è tutto ciò che è dell'essere umano: la nobiltà e la miseria, la bellezza e la meschinità, l'eleganza e la grettezza, la poesia e il corpo. Nessun tentativo di rendere i personaggi migliori di quello che sono. Soprattutto, il narratore non li giudica mai, si limita a osservarli nel loro agire, a descriverne i moventi e metterne in luce le ambiguità. Perché “ciascun essere umano è uno strumento a sei corde” (p. 373) e i sentimenti si combinano di volta in volta a formare sinfonie sempre diverse. Compito della letteratura è allora quello di provare a restituire nella sua forma più essenziale e più vera la realtà nascosta degli uomini e delle donne, quell’“universo segreto” in cui si cela ciò che davvero conta. Il romanzo è quindi anche una grande indagine sul processo creativo, sulla forza travolgente e insieme creativa e distruttiva della poesia.
La scrittura libera qualcosa dentro di me. Ti suonerà strano, ma mentre scrivo divento più grande della persona che sono. Sì, mi trasformo in una corda sensibile che vibra tra ciò che è evidente e ciò che è nascosto. Esistono due mondi, almeno [...]. Da una parte quello che appare agli occhi di tutti, [...] dall'altra c'è un universo segreto. C'è tutto quello che tralasciamo di dire, che nascondiamo, che ci rifiutiamo di ammettere. È lì che risiedono le nostre paure. Tutto quello che speriamo e che non otteniamo, o che non abbiamo la forza di conquistare. Tu lo chiami il mondo della poesia [...]. Ma che ti piaccia o no, questa maledetta poesia a volte è l'unica cosa capace di definire l'esistenza per com’è davvero. (p. 153)
Storia di Ásta è senza dubbio un’opera impegnativa, che implica il lettore sul piano intellettuale ed emotivo. Non tutte le domande trovano risposte, non tutti i riferimenti interni risultano facili da cogliere, la risoluzione di alcuni snodi complessi della trama viene demandata alla formulazione di ipotesi, più che alle conferme offerte dal testo. Il volume appare come uno scrigno pieno di gioielli di diversa fattura, attorcigliati tra loro. Ci vuole un po' per districarli e vederli splendere, e resta comunque, nel groviglio, qualcosa di luccicante e ineffabile che non hanno i pezzi presi singolarmente.
Carolina Pernigo