Moby Dick. Prove per un dramma in due atti
di Orson Welles
Gaffi ItaloSvevo, 2018
pp. 116
€ 13,50
Da poco è uscito per Gaffi Editore ItaloSvevo, in quella collana gioiellino che è la Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile (preziosa non solo per la qualità dei testi, ma anche per una veste grafica curata e resa deliziosamente rétro dalle pagine da tagliare col tagliacarte) Moby Dick. Prove per un dramma in due atti.
Si tratta dell'adattamento che Orson Welles operò a partire dal celeberrimo testo di Herman Melville incentrato sulle avventure della nave baleniera Pequod e della sua ciurma guidata dal capitano Ahab alla disperata ricerca della Balena Bianca.
Lo spettacolo andò in scena nel 1955 al Duke of York's Theatre di Londra, con lo stesso Welles fra gli interpreti, nel ruolo dell'impresario della compagnia, di padre Mapple (che aveva già portato sullo schermo nel film di John Houston, la cui uscita era prevista per il giugno successivo) e del capitano Ahab.
Nell'originale inglese il titolo sarebbe Moby Dick - Reaharsed, con un participio passato che sottolinea - come spiega l'ottima prefazione al volume di Paolo Mereghetti - la particolare natura dello spettacolo, «messo in prova, provato».
Infatti, nella finzione narrativa, s'immagina che questo sia un testo provato durante i pomeriggi liberi di una compagnia impegnata nelle repliche del Re Lear di Shakespeare, alla fine dell'Ottocento.
In tale ambiente di raccordo, si stratificano i rimandi e i confronti tra due giganti della tradizione, Shakespeare e Melville.
E così come nel teatro shakespeariano erano le battute stesse a creare, e rafforzare, il mondo del racconto, più della scenografia, nella resa wellesiana del testo di Moby Dick, tutto è raccontato e nulla si vede matericamente in scena, se non il palco, «non spoglio, ma significativamente, perfino romanticamente, decorato da tutto il legno di un vecchio teatro».
Un modo di rendere centrali le parole e di sublimare le dinamiche, prosciugando un testo molto denso nella sua essenziale resa drammatica.
Inoltre, l'espediente di costante uscita e entrata dei personaggi-sulla-scena nei personaggi-nell'-azione-drammaturgica contribuisce a uno straniamento, da un lato, ma anche a un surplus di movimento che rende quest'opera molto interessante anche ad una sola lettura.
Grazie anche alla traduzione equilibratissima, curata da Marco Rossari, allievo di Ottavio Fatica ma con un occhio di riguardo alla sensibilità imperfetta della versione di Cesare Pavese.
Mettersi alla prova con due mostri sacri come Melville e come Welles, e con una lunga tradizione di versioni precedenti, non dev'essere stata impresa facile.
C'è di che essere contenti di questa pubblicazione, almeno per due motivi.
Primo: il recupero di un altro tesoro perduto di Orson Welles (come è successo anche per The Other Side of The Wind, film "ritrovato" e portato a termine da Peter Bogdanovich, che abbiamo potuto recentemente apprezzare al cinema e su Netflix).
Ma anche l'opportunità di rileggere ancora una volta, e sotto una luce nuova, un grande capolavoro come Moby Dick. Uno di quei libri che ci guardano dallo scaffale, e spesso non si hanno il coraggio di affrontare, nell'attesa di trovare il momento giusto.
Trovare un secondo testo che ti spinga a leggere la fonte originaria è sempre un piacevole pungolo. Scoprire leggendolo che ne costituisce un'ottima chiosa è raro, e bello.
Giulia Marziali