Appartamento 401
di Yoshida Shūichi
Feltrinelli, 7 febbraio 2019
Traduzione di Gala Maria Follaco
pp. 240
€ 16,00
Gli appartamenti giapponesi, si sa, sono piccolissimi. Specialmente quelli delle grandi metropoli come Tokyo, Osaka o Yokohama, tutte sviluppate in verticale e dove una famiglia riesce a vivere in 50 metri quadrati. E se la nostra sensibilità mediterranea inorridisce di fronte a questa assenza di spazi, noi, figli del boom economico che voleva a tutti i costi assegnare una camera a ogni abitante di un appartamento, che rabbrividiamo di fronte ai consigli di riordino di Marie Kondo (che si è spinta addirittura ad affermare di eliminare dalla nostra libreria i testi che non ci suggeriscono gioia), di certo proviamo un senso di claustrofobica oppressione pensando a quattro, prima, e cinque, poi, ragazzi costretti nelle tre camere di un appartamento di Setagaya a Tokyo, l’Appartamento 401, appunto, del romanzo di Yoshida Shūichi.
La trama del libro si esaurisce, principalmente, tutta lì, nelle quattro mura di quel minuscolo appartamento in cui le vite dei protagonisti si intrecciano e scontrano, dando vita a un’energia vitale senza precedenti. Se Koto-chan trascorre le sue giornate davanti al telefono in attesa della chiamata del suo fidanzato, divo delle soap opera della tv, non più entusiasmante si può dire la vita di Ryōsuke, studente di economia che combatte contro i sentimenti provati per la fidanzata del suo senpai (un collega più grande che funge da guida nell’ambito universitario o lavorativo). Insieme a loro vivono anche Mirai, disegnatrice dedita all’alcool che non rincasa prima delle tre del mattino e che affida le sue pulsioni a un VHS dal contenuto segreto, e l’iper-salutista Naoki, impiegato di una casa di distribuzione cinematografica. L’equilibrio fragile di questo ecosistema viene turbato dal contemporaneo (e chissà, legata) accadimento di tre fatti: una serie di misteriose aggressioni a donne vicino a luoghi nevralgici del quartiere, il viavai sospetto nell’appartamento 402 e la comparsa di Satoru, ragazzino sconosciuto a tutti ma che una mattina Koto-chan ritrova a sonnecchiare sul divano di casa loro.
L’intento di Shūichi è, senza dubbio, quello di imbastire un thriller dalle tinte non troppo fosche, ma in grado di tenere con il fiato sospeso i lettori. Senza dubbio l’intento è riuscito, seppur in una forma che la sensibilità occidentale non riconosce immediatamente. In ogni produzione letteraria orientale (dalle poesie ai romanzi, fino ai miei adorati manga), infatti, non è raro riscontare numerosi passi in cui l’autore viri dalla strada maestra tracciata e si concentri su aspetti altri. A volte questi coincidono con la bellezza della natura, altre con le riflessioni dei protagonisti, altre ancora con dubbi esistenziali. In Appartamento 401 questa deviazione appare molto decisa e netta e il thriller diventa il semplice sfondo di una storia che racconta della falsità umana e di quanto ogni individuo non sia mai completamente se stesso, indossando la pirandelliana maschera che crede che gli altri vogliano che indossi:
Koto e Ryōsuke si erano fatti la loro idea di Satoru, che corrispondeva al Satoru che loro desideravano avere accanto. E io penso che Satoru, che era molto più navigato di entrambi, lo avesse capito e, con discrezione, facesse credere loro di essere proprio come se lo immaginavano. Naturalmente anche Koto e Ryōsuke recitavano una parte. E lo stesso valeva per me e per Naoki. Era così e basta, come dire? Satoru era un grande attore in una compagnia di attori di media caratura, un grande spettatore in una platea di spettatori medi. Uno che non potevi capire fino in fondo, che cercavi di sfiorare senza riuscirci... come il riflesso di una pozzanghera in mezzo all’acqua, per me lui era così. (p. 138)
Nei confronti di tutti gli inquilini dell’Appartamento 401 non c’è alcun giudizio da parte dell’autore. Loro, semplicemente, si comportano in un modo diverso dalla loro essenza perché è così che si fa, senza malizia o premeditazione. Leggendo di questi brevi pensieri sull’esistenza, sparsi qua e là nella storia, di certo i lettori che si aspettavano un thriller alla Matsumoto Seichō rimarranno delusi (potete leggere qui la recensione al suo Tokyo Express). D'altra parte saranno soddisfatti quelli interessati a scoprire di più del modo nipponico di sentire le cose, che in questo caso passa anche per la fruizione di un’opera scritta alla giapponese, con una sintassi lapidaria e frammentata, dal lessico semplice e quotidiano (sarei, in ogni caso, curiosa di conoscere la veste linguistica originale, visto che spesso le traduzioni dal giapponese in italiano non hanno fama di essere accurate). Appartamento 401 è, oggettivamente, un testo strano per chi è abituato a leggere letteratura angloamericana e di certo non è il grande romanzo che cambia la vita. Tuttavia è una buona storia che offre spunti di riflessione, e non a caso è valso all’autore il premio Yamamoto Shūgorō nel 2002 (che Banana Yoshimoto vinse nel 1989 con Tsugumi) e ha offerto l’ispirazione per il film di Isao Yukisada che nel 2009 ha vinto il premio Fipresci al Festival di Berlino.
Federica Privitera