Giulia 1300 e altri
miracoli
di Fabio Bartolomei
edizioni e/o,
2012
pp. 288
€ 9,50 (cartaceo)
pp. 288
€ 9,50 (cartaceo)
Qualche mese fa mi è successo qualcosa: ho letto L’ultima volta che siamo stati bambini e
scoperto, pare con imperdonabile ritardo, dell’esistenza di Fabio Bartolomei (qui l'intervista con l'autore).
La folgorazione letteraria è stata tale che, spinta dal bisogno di fare
ammenda, ho deciso di ripartire dall’inizio.
L’inizio è la Giulia, con i suoi miracoli. Anzi no, l’inizio sono
ancora una volta tre personaggi indimenticabili. L’io narrante è Diego, che
incarna lo stereotipo dell’uomo medio, in cui la medietà confina
pericolosamente con la mediocrità: “altezza
media, corporatura media, pancetta da quarantenne medio, occhi e capelli
castani […]. Io sono il classico tipo che somiglia in brutto a un sacco di
attori americani, più che altro di telefilm” (p. 24). Imprigionato in una
vita irrisolta, di cui non è mai stato veramente protagonista e che pure gli
calza bene addosso, l’uomo confessa senza nessuna remora di essere affetto da
una “acutissima forma di ignavia
camuffata da naturale senso di superiorità” (p. 26) che lo rende il
venditore perfetto: riesce a intuire i desideri dei clienti, a compiacerli
senza risultare viscido, ad aggiustare la verità illudendosi di non stare
mentendo.
Diego è la voce lucida e disincantata della storia: si salva grazie
all’ironia e ad alcuni lampi di consapevolezza che gli offrono accesso a una
verità superiore, seppur appena intuita, e che aprono la strada al cambiamento.
Accanto a lui – eppure inizialmente distantissimi – si muovono Claudio e
Fausto. Claudio “vive in perenne stato
d’allerta” (p. 12): ipocondriaco e paralizzato da mille paure (“delle pentole a pressione, delle crepe nei
muri, dei temporali, degli elettrodomestici”, p. 12), è stato abbandonato
da una moglie che gli ha preferito un uomo ben più virile e di cui continua a
essere perdutamente innamorato, pur accettando di essere relegato in una
umiliante posizione di buon amico. Fausto invece è il trionfo degli –ismi:
egoista, sessista, fascista e razzista, si definisce “persuasore televisivo” (p. 17) quando si occupa di televendite di
orologi difettosi.
Tre inetti, quindi, dalle vite completamente diverse, che
potrebbero non incrociarsi mai se non fosse che tutti, in un modo o nell’altro,
si trovano ad attraversare un momento di crisi e decidono di concedersi
un’occasione di riscatto (o di fuga) rispetto a un’esistenza che inizia ad
andare stretta. Per Diego la pietra d’inciampo è la morte di un padre ignorato
in vita e riscoperto soltanto nell’accudimento degli ultimi giorni, per Claudio
la certezza di essere l’unico responsabile del fallimento dell’impresa di
famiglia avviata da oltre un secolo, per Fausto la necessità di saldare i
debiti e allontanarsi da una situazione spinosa. Se il punto di partenza è
comune, comune è anche la soluzione ipotizzata, che li porta a incontrarsi
davanti a un delizioso podere campano dalle straordinarie potenzialità e un
prezzo sospettosamente basso:
Siamo la generazione del piano B. Lavorare in questo paese fa così schifo che, anche se fai il miracolo di raggiungere la posizione per cui hai studiato, dopo due anni ne hai le palle piene e inizi a elaborare il tuo piano B. Quasi sempre si tratta di un agriturismo, questo quando allo schifo per il lavoro si aggiunge lo schifo per la città. È il miraggio di una vita migliore, più sana, con più tempo a disposizione. Più tempo per pensare e per scoprire che sei infelice lo stesso, che il lavoro non c'entrava un cavolo e nemmeno la città. Hai traslocato e la prima cosa che hai messo in valigia sono stati i tuoi problemi. E adesso te li ritrovi lì, sulla splendida collinetta immersa nella campagna incontaminata. Sogni il paesino dove tutti sono gentili e ti ritrovi circondato dagli stessi stronzi di sempre, con l'unica differenza che non puoi uscire di casa senza trovarteli sempre tra i piedi. Un cartello autostradale mi informa che la parola "Lazio" d'ora in poi va considerata un errore da barrare in rosso. Quella giusta è "Campania".
Nel momento in
cui decide di “metter[s]i in società con
un cafone e uno sfigato visti una volta sola” (p. 53), Diego non immagina la
portata del guaio in cui tutti si stanno infilando. Un guaio che prevede la difficile
coesistenza di individui dai caratteri opposti e apparentemente incompatibili,
la ristrutturazione di un casale nella quasi totale assenza di fondi (e
competenze), le bustarelle che tutti vengono a reclamare, una discarica abusiva
e, dulcis in fundo, il sequestro in
cantina di alcuni camorristi. Un guaio però che cambierà profondamente ognuno
di loro, facendo di un gruppo di uomini falliti e soli qualcosa che assomiglia
a una famiglia. Una famiglia allargata, perché al trio iniziale si aggiungono
presto altri membri, comprimari che riescono ad avere lo stesso spessore umano
dei protagonisti: Sergio, comunista di vecchia data, sindacalista e lavoratore,
che non vuole piegarsi ai soprusi di chi comanda ed è disposto a tutto per
difendere quella che ormai sente come “roba nostra” (ma sostituendo “roba” con “casa”
il significato non cambierebbe); Elisa, che se la cava bene in cucina e coi
massaggi, ha la lingua tagliente e non si risparmia mai una frecciatina
polemica, ma nonostante questo riesce a farsi strada nella barriera
impermeabile che Diego erige intorno ai suoi sentimenti; e poi Abu, Samuel e
Alex, tre giovani ghanesi sfruttati per la raccolta dei pomodori nel campo
confinante, e Vito, camorrista quasi suo malgrado e grande amante della musica
classica. A lui appartiene la Giulia miracolosa, intorno a cui ruotano tutte le
vicende e che è la matrice del successo del nuovo agriturismo, ma anche della
trasformazione dei suoi abitanti. Perché Giulia
1300 è un romanzo di formazione, anche se di formazione tardiva: solo a
quarant’anni i protagonisti crescono davvero, riorientano i propri valori in
una giusta direzione e capiscono la necessità di lottare per ciò che è
importante.
Ritrovo tra le pagine il tono lieve, l’ironia sottopelle, le
riflessioni sociali opportunamente dissimulate, eppure sempre vibranti, che ho
imparato ad apprezzare ne L’ultima volta
che siamo stati bambini. È bello risalire a ritroso nel tempo per scoprirne
in questo testo le origini. Quello che potrebbe essere letto semplicemente come
una commedia leggera, piena di scene esilaranti, è in realtà un tentativo
riuscito di offrire uno spaccato di una certa società, di un certo stato
esistenziale, ma anche di una certa Italia, mostrandone le incongruenze e i
nodi irrisolti:
[Vito] è sereno, beve con noi come se fosse uno del gruppo, il suo sguardo si è addolcito. [...] Forse la verità è terribilmente più semplice. Siamo abituati a ritenere che la mafia esiste perché c'è da sempre ed è imbattibile. Invece è molto peggio di come pensiamo, la mafia si può battere benissimo. La mafia non è capace di conquistarsi uno spazio proprio, sa prosperare solo dove la società lascia dei vuoti. Se le famiglie lasciano dei vuoti, se la scuola lascia dei vuoti, se lo stato lascia dei vuoti, la mafia conquista terreno. Il fatto è che anche la mafia lascia dei vuoti che possono essere riempiti. E in questo gioco di posizione la mafia dovrebbe essere perdente perché i suoi vuoti non li possono riempire solo la famiglia, la scuola e lo stato, basta molto meno, basta uno straccio di alternativa. Un agriturismo destinato al fallimento, per esempio. (p. 153)
L’abilità dell’autore sta nel
creare un sottotesto diffuso che fa emergere la critica sociale più dagli
eventi della trama che dalle esternazioni palesi dei personaggi, e in questo
modo evita il pericolo dei facili moralismi e innesca non solo un pensiero più
profondo, ma anche delle reazioni empatiche di commozione e sdegno nel lettore,
reso totalmente partecipe delle sorti dei protagonisti. Se la situazione
iniziale, in quello che viene chiamato opportunamente – anche se dopo varie
discussioni – Casal de’ Pazzi, potrebbe essere quella di una barzelletta, come
denuncia Fausto in toni forse non proprio ortodossi (“Che poi che c’è da ridere…
un negro, un camorrista, due sfigati e un comunista del cazzo! Ma che è?”, p.
183), il principale tra i miracoli decantati dal titolo risiede proprio nel
modo in cui questi elementi incongrui riescono ad assumere una forma armonica e
coerente, perfettamente riuscita, di cui le sinfonie della Giulia 1300, che accompagnano lo
svolgimento della trama, diventano in conclusione una meravigliosa metafora.
Carolina Pernigo