La straniera
di Claudia Durastanti
La nave di Teseo, 14 febbraio 2019
pp. 285
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Claudia Durastanti non ha scritto un’autobiografia, non una raccolta di racconti né un romanzo di finzione o formazione. Claudia Durastanti ha scritto una vita. La straniera è un libro senza trama, con pochissimi nomi propri, privo di qualunque punto di riferimento. Lo afferri e vieni catapultato nella stanza semianecoica in cui John Cage nel 1951 cercò il silenzio perfetto. La lettura procederà così, ovattata, in una bambagia letteraria che ti si incolla addosso e non ti lascia, risucchiando le tue emozioni, la tua memoria, i tuoi ricordi per entrare in comunione con le emozioni, la memoria e i ricordi della protagonista, che parla in prima persona. In questa Terramai (la Neverland di Peter Pan) in cui vivono tutte le individualità che investono la protagonista e con lei creano incidenti mortali, bisogna lasciarsi guidare dall’ineffabile e iniziare una lettura che difficilmente si dimenticherà. Per la difficoltà di come è scritta, di quello che dice, di quello che ti lascia.
La storia stratifica su piani paralleli la vita di una famiglia, che non inizia dai genitori non udenti della protagonista, ma va continuamente avanti e indietro nel tempo, dalla bisnonna emigrata in Argentina che risale l’America fino all’Ohio per poi fare ritorno in Basilicata ricca e sistemata, fino alla nipotina della protagonista, figlia del fratello «prima materia» attorno alla quale si è addensata per sopravvivere all’evanescenza dei genitori, nebulosa la madre, galassia nerissima il padre. Per poi tornare ancora indietro, al nonno materno che ballava la tarantella in uno scantinato di Brooklyn e cantava Nino d’Angelo e Mario Merola con passione. La narrazione procede per argomenti: Famiglia, Viaggi, Salute, Lavoro & Denaro e attorno al concetto di estraneità si srotolano le esperienze della protagonista/Claudia Durastanti, senza mai afferrare (ma perché non importa, in fondo) se quello che viene raccontato sia verità o finzione. Chi è straniero, stranger più correttamente, in questo mondo? La madre che si è sempre rifiutata di usare la LIS «parlando con la sua voce alta e forte dagli accenti irregolari» (p. 19) e che sembrava solo un’immigrata sgrammaticata? O straniero è chi è costretto a lasciare casa, nascendo a Brooklyn, crescendo in Basilicata e volendo volontariamente trascorrere la vita adulta sempre in viaggio tra Roma e Londra, come nel caso della voce narrante?
Straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe a esserlo; il resto del tempo, è solo il sinonimo di una mutilazione, e un colpo di pistola che ci siamo sparati da soli. (p. 179)
L’emigrazione, allora, diventa uno stato d’animo, una condizione dell’essere per la quale non si riesce a mettere radici in un luogo, per accamparsi invece nei film visti, nei libri letti, nella musica ascoltata. Non è un caso, infatti se molti dei passaggi più lirici del testo sono affiancati da rimandi a film, a testi di canzoni, ad articoli di approfondimento o ricordi di ciò che si è letto da qualche parte (includendo anche un graffito sotto un ponte di New York). L’identità di chi convive con tutti «i se del sé, sperando che nessuno prenda il sopravvento sull’altro» (p. 106) è franta, evanescente e non avrà compimento nemmeno con la morte, quando sulla lapide non verranno scritti i chilometri che ti separano da casa.
La forza de La straniera sta nel suo esacerbare pensieri ed emozioni e scarnificarli, mettendoli a nudo e lasciando inermi di fronte alla loro inevitabilità. «Quando tutto cade, indomito l’amore resta» (p. 285). Il sentimento padre di tutti i sentimenti viene presentato in una nuova ottica. Nonostante gli strati di lamiere in cui viene tagliata la vita della protagonista, preda dell’esagerazione dei genitori, l’amore rimane una guida, seppur reinventato nella sua essenza. Quello della madre e del padre, ma anche il suo con il fidanzato che l'ha accompagnata per buona parte della vita, non ha nulla a che vedere con due anime gemelle che si cercano o con un filo rosso teso dal destino. L’amore diventa l’arma per sopravvivere a una guerra continua, quel collante che lega gli individui fino a confondere la pelle dell’uno sull’altro e che non ha nulla di romantico. È inevitabile, punto, «un allarme invisibile che invitava alla sopravvivenza» (p. 35).
In quella stanza silente che è la lettura de La straniera ci si commuove come raramente un romanzo sa fare, di quella commozione senza lacrime esterne perché le ferite sono tutte latenti, e grazie al silenzio ovattato si può sentire il rumore di ogni ferita che si apre pagina dopo pagina. È un romanzo oscillante, tra eccessi lirici estremi a riflessioni profonde, per poi passare a descrizioni crude che non lasciano scampo. E se la disabilità rimane il punto di avvio della storia, sulla disabilità trovo il messaggio più bello che il libro abbia dato:
Federica Privitera
La forza de La straniera sta nel suo esacerbare pensieri ed emozioni e scarnificarli, mettendoli a nudo e lasciando inermi di fronte alla loro inevitabilità. «Quando tutto cade, indomito l’amore resta» (p. 285). Il sentimento padre di tutti i sentimenti viene presentato in una nuova ottica. Nonostante gli strati di lamiere in cui viene tagliata la vita della protagonista, preda dell’esagerazione dei genitori, l’amore rimane una guida, seppur reinventato nella sua essenza. Quello della madre e del padre, ma anche il suo con il fidanzato che l'ha accompagnata per buona parte della vita, non ha nulla a che vedere con due anime gemelle che si cercano o con un filo rosso teso dal destino. L’amore diventa l’arma per sopravvivere a una guerra continua, quel collante che lega gli individui fino a confondere la pelle dell’uno sull’altro e che non ha nulla di romantico. È inevitabile, punto, «un allarme invisibile che invitava alla sopravvivenza» (p. 35).
In quella stanza silente che è la lettura de La straniera ci si commuove come raramente un romanzo sa fare, di quella commozione senza lacrime esterne perché le ferite sono tutte latenti, e grazie al silenzio ovattato si può sentire il rumore di ogni ferita che si apre pagina dopo pagina. È un romanzo oscillante, tra eccessi lirici estremi a riflessioni profonde, per poi passare a descrizioni crude che non lasciano scampo. E se la disabilità rimane il punto di avvio della storia, sulla disabilità trovo il messaggio più bello che il libro abbia dato:
I disabili – qualsiasi parola per definirli è insufficiente, inadeguata – sono la maggioranza nascosta […]. Quasi tutti con il tempo perderemo un super potere, che sia la vista, un braccio o la memoria. L’incapacità di fare cose che dovremmo saper fare, l’impossibilità di vedere, sentire, ricordare o camminare non è un’eccezione quanto una destinazione. Diventiamo tutti disabili, prima o poi. (p. 35)Nei corridoi si ode un’eco di candidatura al Premio Strega per Claudia Durastanti. Spero che sia vero. Sarebbe meritato.
Federica Privitera
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