di Manuel Vilas
Guanda, 2019
pp. 416
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Non mi dispiace mettere in mostra la vita di mio padre. Anche se in Spagna nessuno vuole mettere in mostra nulla. Ci farebbe bene scrivere delle nostre famiglie, senza nessuna finzione, senza romanzare. Solo raccontando ciò che è successo, o ciò che crediamo sia successo. La gente nasconde la vita dei propri progenitori. Quando conosco una persona, gli chiedo sempre dei suoi genitori, vale a dire della volontà che ha portato al mondo quella persona. (p. 134)
Bisogna aspettare 134 pagine di In tutto c'è stata bellezza (Ordesa) per avere la certezza di essere davanti a un caso di palese autofiction, perché prima le coincidenze biografiche tra autore e io narrante rischiavano di farci semplicemente cadere in una sovrapposizione corriva. In effetti, l'aufofiction ha invaso la narrativa con esperienze personali e in questi ultimi anni sono usciti libri di rara bellezza, ma la domanda che, dopo aver chiuso un manoscritto, un autore deve porsi è la seguente: perché dovrei pubblicarlo? Cosa potrebbe trarre il lettore dal mio libro? Divertimento, ansia, mutua rispondenza di sentimenti, spunti di riflessione,...? Perché se la risposta tarda ad arrivare e tutto resta schiacciato sull'esperienza personale, non replicabile, non universalizzabile né condivisibile in alcun modo, il libro resta un esito forse catartico per l'autore, ma non certo per il lettore, che semmai è ridotto a mero osservatore.
Almeno è questa la riflessione a cui sono giunta leggendo In tutto c'è stata bellezza (Ordesa) di Manuel Vilas, autore affermato in Spagna e ora arrivato anche in Italia. Fernando Aramburu, famoso autore di Patria, da me amatissimo, ha definito questo romanzo «un libro potente, sincero, a tratti crudo, sulla perdita dei genitori, sul dolore delle parole non dette e sulla necessità di amare e di essere amati». Ho riletto più volte questa definizione, e ogni volta mi trovavo in disaccordo: come definire "potente" un libro che spesso è un soliloquio sulla propria crisi esistenziale, bloccato in un circolo vizioso di contemplazione e adorazione del passato, in particolare dei propri genitori, e relega il presente a poche pagine qui e là, detta tutta, piuttosto irrilevanti? Insomma, per quanto ci abbia provato, non sono proprio riuscita a entrare sintonia con questo libro, ma andiamo con ordine.
Partiamo dalla trama: il protagonista sta vivendo una profonda crisi per la scomparsa dei suoi genitori, nonché per il suo divorzio recente, ma questo passa assolutamente in secondo piano. A farla da padrone è invece la paura di non riuscire a ricostruire la storia di famiglia e di restare, in qualche modo, orfano per la seconda volta, privato della possibilità di scoprire la propria identità. Sì, perché pare che non siamo niente se non il prodotto dei nostri progenitori; molti sono infatti i passaggi angoscianti per qualunque lettore osi rivendicare un po' di autoaffermazione e di indipendenza dalle proprie origini:
Mi sembra una scortesia vivere più anni di quelli che ha vissuto tuo padre. Una slealtà. Una bestemmia. Un errore cosmico. Se vivi più anni di quelli che ha vissuto tuo padre, smetti di essere figlio, questo intendo dire.O ancora:
E se smetti di essere figlio, non sei nulla. (p. 192)
I resti ossei sono stampo, sostegno e corona di noi che restiamo sopra la terra, in superficie.
Perché nello scheletro c'è ambizione e manifestazione e sedizione. E io non ho saputo capirlo. E c'è comunità, perché nei cimiteri gli scheletri sono vicini gli uni degli altri, e in quella vicinanza respira ancora una forma di speranza.
La speranza di rivedervi, papà, mamma.
Io sono soltanto questo: speranza di rivedervi. (p. 223)
Lo ammetto: ho riempito il romanzo di enormi punti di domanda nei margini: sarà che le frasi apodittiche, sentenziose sono sempre rischiose, soprattutto quando suonano così definitive e portano idee assolutamente minoritarie e soggettive. Perché mai un uomo adulto, cinquantenne, con una famiglia (per quanto in parte disgregata dal divorzio) e un lavoro dovrebbe ritenersi un "nulla" in assenza dei genitori? E perché dovrebbe ridursi all'unico obiettivo di rivedere i defunti? Basta un po' di sano attaccamento alla vita per scuotere più volte la testa, perché in questo romanzo la ripresa del passato e dei ricordi è sempre cosparsa di riflessioni sulla morte che non poche volte tradiscono morbosità. E la scelta stessa di riproporre foto di famiglia, spesso unica fonte per informazioni sugli avi, è a tratti fastidiosa, per quanto l'autore abbia spiegato diversamente la sua scelta. A me è parso di essere un voyeur davanti allo spioncino dei ricordi (spesso solo ipotizzati) di vite probabilmente straordinarie per l'autore, ma piuttosto ordinarie per il lettore. Soprattutto, pare che l'io narrante non badi minimamente al lettore, preso com'è dal suo dialogo senza risposta (non sempre possiamo chiamarlo monologo) con i fantasmi dei suoi. La ricostruzione della sua stessa infanzia è sempre in funzione del rapporto con i genitori, il suo presente viene riletto alla luce di quanto avrebbero pensato la madre e soprattutto il padre,... E l'atmosfera che ne emerge è angosciosa: pare di trovarsi a tu per tu con un uomo profondamente impastoiato nella propria crisi, quasi compiaciuto nel contemplare i fantasmi del suo passato, convinto che non resti altro da fare.
Il risultato, manco a dirlo, è quello di un romanzo fastidiosamente personale, che ho trovato a tratti addirittura repulsivo, perché claustrofobico nel suo guardare ostinatamente solo al passato. Per questo, più volte, davanti all'ennesima esaltazione del passato, infinitamente migliore del presente, alla costante riflessione sul tempus edax, che porta al disfacimento dei corpi e degli oggetti, ho fatto appello al senso critico per ritrarmi dalla cappa di angoscia e disperazione appena trattenuta:
Bruciare i morti è un errore. Anche non bruciarli è un errore.
Lo schermo del computer è il posto in cui sta il cadavere adesso. Via via lo schermo invecchia, presto dovrò comprare un altro computer. Le cose non resistono come facevano anticamente, quando un frigorifero o un televisore o un ferro da stiro o un forno duravano trent'anni, e questo è un segreto della materia; la gente non seppellisce elettrodomestici vecchi, ma c'è gente a questo mondo che ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano.
In tutto c'è stata bellezza. (p. 113)
Ah sì? E credo che non serva aggiungere altro.
GMGhioni
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