Io sono Maria Callas
di Vanna Vinci
Feltrinelli Comics, 2018
pp. 176
€ 22,00
Vanna Vinci non è una melomane. Ah no? No. Neanche un po’. Per quanto possa sembrare paradossale, dato il soggetto al centro del suo ultimo (capo)lavoro – ovvero Maria Callas, la dama del melodramma per antonomasia – la maestra del fumetto italiano non sa mentire ai suoi estimatori, a cui confessa (in cauda venenum, si fa per dire) la sua totale estraneità al genere: «non sono un’appassionata di musica lirica (…) Per me, la voce di Maria Callas rimane un mistero incomprensibile, un suono non umano, fatto di molte voci come quello di un’intera foresta». Eppure non lo si direbbe affatto. Non solo per la competenza mostrata in corso d’opera – che è frutto di uno studio evidentemente accorto e partecipato delle fonti biografiche, saggistiche e documentarie – ma anche per l’intensità con cui, tavola dopo tavola, il personaggio della Callas e soprattutto la persona di Maria si imprimono nella memoria del lettore. Io sono Maria Callas è una biografia a fumetti in cui, con la complicità del tratto deciso dell'illustratrice, ogni suono citato si incide come un solco sul vinile: a partire dalla magia vocale della Divina e dal cinguettio degli adorati canarini che le insegnarono a gorgheggiare passando per gli applausi che progressivamente ne scandirono le presenze sui palcoscenici di tutto il mondo; fino ad arrivare, nel precoce ultimo atto di uno spettacolo esistenziale ormai ridotto a farsa, al fruscio impalpabile delle ceneri dell’artista al momento del loro spargimento in mare.
di Vanna Vinci
Feltrinelli Comics, 2018
pp. 176
€ 22,00
Vanna Vinci non è una melomane. Ah no? No. Neanche un po’. Per quanto possa sembrare paradossale, dato il soggetto al centro del suo ultimo (capo)lavoro – ovvero Maria Callas, la dama del melodramma per antonomasia – la maestra del fumetto italiano non sa mentire ai suoi estimatori, a cui confessa (in cauda venenum, si fa per dire) la sua totale estraneità al genere: «non sono un’appassionata di musica lirica (…) Per me, la voce di Maria Callas rimane un mistero incomprensibile, un suono non umano, fatto di molte voci come quello di un’intera foresta». Eppure non lo si direbbe affatto. Non solo per la competenza mostrata in corso d’opera – che è frutto di uno studio evidentemente accorto e partecipato delle fonti biografiche, saggistiche e documentarie – ma anche per l’intensità con cui, tavola dopo tavola, il personaggio della Callas e soprattutto la persona di Maria si imprimono nella memoria del lettore. Io sono Maria Callas è una biografia a fumetti in cui, con la complicità del tratto deciso dell'illustratrice, ogni suono citato si incide come un solco sul vinile: a partire dalla magia vocale della Divina e dal cinguettio degli adorati canarini che le insegnarono a gorgheggiare passando per gli applausi che progressivamente ne scandirono le presenze sui palcoscenici di tutto il mondo; fino ad arrivare, nel precoce ultimo atto di uno spettacolo esistenziale ormai ridotto a farsa, al fruscio impalpabile delle ceneri dell’artista al momento del loro spargimento in mare.
Tuttavia, anche a dispetto della data di pubblicazione – il 22 novembre dello scorso anno, giornata dedicata a Santa Cecilia, patrona della musica e dei musicisti – all’origine di Io sono Maria Callas non c’è nessun culto fanatico per il bel suono e il bel canto: sempre per sua ammissione, è soprattutto l’essere umano a interessare Vanna Vinci. La donna, dunque, più che la leggenda, protagonista di una vita che le è sembrata «emblematica dal punto di vista della “questione” femminile». Sempre attratta da personaggi tanto carismatici, ribelli e rivoluzionari quanto sofferenti, sfortunati e tormentati – si pensi ai suoi precedenti lavori dedicati a Tamara de Lempicka, Frida Kahlo, la Marchesa Casati – l’illustratrice ha voluto spogliare l’artista da tutti quegli orpelli di scena che giocoforza ne hanno imprigionato la memoria in una gabbia dorata, e si è chiusa con lei nello spazio privato di una casa e di una coscienza più che in quello pubblico di un camerino e di un’intervista. Tra le mani di Vanna Vinci, Maria Callas è bambina prodigio, adolescente sgraziata, fanciulla acerba e donna matura: è certamente miracolo canoro, ma soprattutto desiderio di amare e di essere amata, di piacere e di compiacere, di contemplare orizzonti di fama e di gloria ma anche prospettive di moglie e di madre, vale a dire quei perniciosi sogni “borghesi” da cui, ormai adulta e segnata dagli eventi, ancora cercava di svegliarla l’amico Pier Paolo Pasolini.
Così, anche se la dimensione divistica e spettacolare dell’esistenza della Callas c’è tutta – perché non solo non mancano i precisi omaggi a tutte le interpretazioni che la resero celebre, ma la stessa narrazione nel suo complesso è suggestivamente articolata come un’antica tragedia greca (Parodo, Episodi, Stasimi, Esodo) – la vicenda interiore di Maria ha un valore fondamentale, preminente; al punto che è proprio la sua inquietudine a proiettarsi sulle pagine, e non procede mai disgiunta dalle variazioni del suo aspetto fisico. In questo senso, il lavoro di Vanna Vinci è un susseguirsi di pezzi di bravura la cui perizia della forma veicola un messaggio di decisiva importanza per comprendere la sua interpretazione di questa figura femminile: i cambiamenti del volto e del corpo di Maria, evidenziati dall’illustratrice in modo fedele e puntuale, vanno di pari passo con la sua evoluzione psicologica, in un accidentato percorso per l’accettazione di sé sempre legato al bisogno di conferme da parte del prossimo. In una vera e propria resa al potere dell’evidenza corporea, l’attenzione cade sulla bimba sovrappeso, sulla ragazzina tormentata dall’acne, sulla mannequin alla moda finalmente libera da decine di chilogrammi in eccesso; cade, cioè, su quella trasformazione da crisalide in farfalla in cui generazioni di donne hanno creduto di trovare la soluzione a problemi esistenziali di ogni sorta. Quanto a ragione? Quanto a torto?
E poi l’affetto, l’amore, e dunque i rapporti con il prossimo e con l’altro sesso. La giovane Maria che non vede l’ora di diventare la signora Meneghini, andando in moglie a un uomo tanto più grande di lei che però le garantirà uno status sociale pubblicamente rispettabile e una comoda gestione imprenditoriale della sua carriera, è una donna desiderosa di agio domestico e di benessere materiale, che ancora non conosce il potere devastante della lusinga dei sensi. Nulla di strano, allora, che la sua rodata quiete matrimoniale venga sconvolta dall’incontro con Aristotele Onassis, perfetto esempio di maschio rapace e predatorio agli antipodi del buon “Titta”, che con lei fu sempre protettivo e devoto come un padre (e come tale, non di rado, un poco manipolatore). Per la prima volta a contatto con una virilità esplicita e prepotente, Maria troverà se stessa nei termini di una maturità anche sessuale, ma nel contempo, a poco a poco, perderà autostima, rispetto, dignità: sedotta e ben presto abbandonata (sostituita con Jacqueline Kennedy, la “vedova del Presidente”), non si riprenderà più dall’epilogo volgare di un rapporto che l’aveva fatta rinascere e fiorire come donna per poi gettarla nel buco nero delle passioni violente, quelle della carne e dell’orgoglio. Sempre incline all’invaghimento nei confronti di colleghi e amici particolarmente carismatici – da Visconti al già citato Pasolini – Maria appare sempre così insicura perché segnata già alla nascita dalla carenza di affetto da parte di una figura materna che le avrebbe reso la vita impossibile: il cordone ombelicale della neonata che va a fondersi con il fumo della sigaretta della madre rende bene il carattere tossico di un rapporto che avrà ripercussioni nefaste sulla personalità della figlia. Dubbi e complessi di inferiorità saranno una costante nella vita di Maria, anche all’apice del successo, e un grave senso di solitudine e di incomprensione la accompagnerà anche dopo il ritiro dalle scene e dalla vita pubblica tout court, nella parentesi finale che, alla stregua di una (qualsiasi) Norma Desmond sul Viale del tramonto, la vorrà sempre più dipendente dai farmaci e dai ricordi di un passato affilato come un’arma a doppio taglio.
Umana, dunque, anzi umanissima la Callas di Vanna Vinci, sempre sull’orlo dell'autocompiacimento e poi dell’insoddisfazione. Non è certo un caso se non c’è quasi tavola in cui il suo viso, così particolare e sempre così protagonista, non venga ritratto in un’espressione variamente corrucciata, addolorata, pensierosa. L’illustratrice non le ha fatto sconti, non le ha asciugato le lacrime e non le ha spianato le rughe: Maria è maestosa nei trucchi e nei costumi di scena (una gioia per il lettore che ne apprezzerà la resa dei dettagli) ma giù dai palcoscenici e fuori dai teatri si agita, piange, invecchia come una donna qualsiasi. Anche lei, quando le luci si spengono e le rose smettono di piovere sulla ribalta, si trafigge pateticamente con le spine di mille preoccupazioni: una famiglia d’origine disfunzionale, un corpo tiranno con cui contendersi lo scranno del piacere, una gravidanza desiderata con ostinazione. Certo, c’è in lei tutta la solitudine dell’eroina tragica – una caratteristica splendidamente esplicitata in alcuni disegni in cui la sorte infelice di Maria-Medea viene spiegata attraverso gli stilemi tipici della pittura vascolare –, ma i drammi che si trovò a vivere nel privato la accomunano a generazioni di donne che come lei non riuscirono a emanciparsi da legami ossessivi, influenze negative, cattivi pensieri. In questo, evidentemente, risiede il fascino del suo destino eccezionale eppure così comune, unico eppure per molti aspetti paradigmatico.
Pare ovvio consigliare Io sono Maria Callas a tutti gli estimatori di Vanna Vinci e della sua illustre biografata: per devozione, collezionismo, bibliofilia, per puro e semplice desiderio di apprezzare una versione nuova, intima, circa una storia che già si crede di conoscere; una versione in più, evidentemente autoriale, che a modo proprio, con originalità e carattere, regola i volumi, modula le intensità, orchestra i bassi e gli acuti di una vicenda esistenziale prima che artistica. La donna che si muove tra le pagine – incerta come un brutto anatroccolo e soave come un cigno, leggera come l’eterno femminino e greve come il fantasma di un’antica stirpe – ha un’esperienza di vita da raccontare in versi, prosa, musica e brusio: quello di un pubblico in sala sempre pronto alle ovazioni ma anche ai fischi, e quello di un coro critico fittissimo di voci amiche e nemiche, comunque impossibile da zittire. Con le sue tavole giocate sul bianco, sul nero e su tutte le gradazioni del rosso, Vanna Vinci ha ricordato che le costruzioni mitologiche e divine nascono dalla rielaborazione dei posteri: le rose di Maria Callas furono tutt’altro che mistiche, e lei, che pur visse d’arte, non morì certo in odore di santità.
Cecilia Mariani