Vita su un pianeta nervoso
di Matt Haig
Edizioni e/o, 2019
Traduzione di Silvia Castoldi
Traduzione di Silvia Castoldi
pp. 408
€ 15 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
La gente non ha bisogno solo di spazi fisici, ma anche dello spazio per essere mentalmente libera. Uno spazio privo di distrazioni indesiderate che ci ingombrano la testa come finestre pop-up mentali in un mondo già frenetico. Tale spazio esiste ancora. Solo che non possiamo darlo per scontato. Dobbiamo cercarlo consapevolmente. Potremmo dover stabilire orari fissi per leggere, praticare yoga, immergerci in un lungo bagno caldo, cucinare il nostro piatto preferito o uscire a fare una passeggiata. Potremmo dover spegnere il cellulare. Chiudere il portatile. Potremmo doverci scollegare, per ritrovare una sorta di versione alleggerita, acustica di noi stessi (pp. 340-1)
Matt Haig ha sofferto di depressione e soffre attualmente di attacchi
di panico, ansia e crisi di nervi. Il modo in
cui il tempo ci sfugge fra le mani, affaccendati come siamo fra centinaia di
attività quotidiane molte delle quali superflue, lo ossessiona: proprio il suo fluire implacabile, d’altronde, è il grande protagonista del suo
ultimo romanzo, anch’esso uscito per i tipi di e/o (Come fermare il tempo, 2018). E come lui, molti di noi oggi
soffrono delle stesse malattie e degli stessi disturbi: l’epoca contemporanea,
quella in cui noi tutti viviamo, è dominata da ritmi frenetici, dal
sovraccarico di input e dal desiderio di raggiungere ideali e standard di per sé inafferrabili. Viviamo, cioè, su un pianeta nervoso nella doppia
accezione dell’aggettivo: da un lato, come neuroni siamo (iper)connessi da
tecnologie che consentono di collegarci con potenzialmente qualsiasi essere
vivente sul pianeta; dall’altro, questo sistema che abbiamo creato è in grado
di soffrire esattamente come farebbe un sistema vivente, e oggi la situazione è
drammatica. Siamo nevrotici.
Haig si mette a nudo sin dalle prime pagine, rivelandosi come una
creatura fragile e preda dei vizi: del bere, del dormire poco, del tempo speso sui
social network a osservare quanti like e commenti i suoi post hanno ricevuto. Lo
scrittore si apre al mondo con un preciso intento: come più volte ripete, uno dei suoi obiettivi è dimostrare come la malattia mentale,
demonizzata in ogni epoca e ancora un forte tabù in quella contemporanea, abbia
la stessa dignità di quella fisica poiché, a differenza di quanto la religione
e determinate filosofie ci hanno fatto credere, uno è il corpo e non c’è
separazione fra il territorio fisico e quello mentale.
Esattamente come per i disturbi fisici esistono cure, così per quelli
mentali ci sono soluzioni. E allora Vita
su un pianeta nervoso, oltre a essere un diario di viaggio che apre le
porte sulla vita di un uomo, dopo le prime pagine diventa anche un
saggio sulle nostre vite in queste società occidentali sempre più bombardate da
stimoli e ideali che, quando non sono irraggiungibili, non forniscono un grammo
di felicità in più ma anzi contribuiscono ad abbassare l’autostima e il senso
di sicurezza. Haig, con la disinvoltura e la semplicità che gli sono
proprie, parla di mezzi di comunicazione di massa, marketing e social media e di come ciò
che ha iniziato a rivoluzionare le nostre vite da circa un decennio si stia
rivelando un’arma a doppio taglio. Le domande che pone sono due, e se sulla
prima possiamo dirci d’accordo all’unanimità (salvo essere complottisti), sulla
seconda si può aprire uno spazio di discussione: siamo oggi più longevi e meno
soggetti alle malattie rispetto al secolo scorso? Siamo oggi più felici
rispetto al secolo scorso?
Vita su un pianeta nervoso è
però anche un utile vademecum che riporta consigli su come evitare lo stress e
ritrovare la bellezza. La sensazione di già detto che si coglie a primo acchito in alcune pagine sortisce in un secondo momento un
effetto insperato e straniante: proprio leggendo liste come “Cose che esistono da sempre”
(«La luce resa più vivida dal buio che la circonda. Sguardi che si incontrano. Ballare.
Conversazioni prive di significato. Silenzi carichi di significato», p. 379), “Come
possedere uno smartphone e continuare a funzionare come essere umano”
(«Disattivate le notifiche», «Trascorrete alcune ore della giornata lontani dal
cellulare», «Siate minimalisti per quanto riguarda le app», pp. 211-3), “Cosa
mi dico quando tutto diventa troppo” («Accettati per come sei», «Non saltare
mai la colazione», «Compra meno», pp. 381-3), e percependo quella sensazione di
banalità tipica di certa narrativa pop, ci si accorge di come quelle sono sì
banalità, ma lo diventano solo nel momento in cui le leggiamo, o meglio: sono
sì banalità, eppure raramente seguiamo quei consigli durante la giornata.
Studi e statistiche ci dicono che trascorriamo
oltre cinque ore al giorno davanti a social network e tv: tolte quelle in
cui dormiamo (e anche qui lo scrittore è categorico: dobbiamo dormire di più!),
in cui lavoriamo ecc., quanto ci resta da vivere? Ma Haig non si ferma qui, e
pone le domande più terrificanti: pur avendo a disposizione tutto il tempo
guadagnato dall’avere a che fare con strumenti che svolgono compiti al posto
nostro e mezzi di comunicazioni e di trasporto sempre più efficienti, come lo sfruttiamo?
Davvero tutto si riduce a rispondere a commenti, a controllare like, a
offendersi a vicenda, a farsi insultare dai troll sotto le bacheche di qualche sconosciuto? E di tutta quella ricchezza
posseduta (ché innegabile è il fatto che oggi mediamente siamo più ricchi
rispetto al primo Novecento) cosa ne facciamo? Davvero ci indebitiamo per un
nuovo smartphone, per una nuova auto, per una crema di bellezza che non ci
renderà più giovani? «Spesso ci sorprendiamo a desiderare che una giornata
contenga più di ventiquattro ore, ma un pensiero del genere non serve a nulla. È
evidente che il problema non sta nella mancanza di tempo. Sta in un
sovraccarico di tutto il resto» (p. 108.
Dalla crisi d’ansia di un uomo alla nevrosi di massa della società
contemporanea: dal singolo alla comunità, dal neurone all’intera rete
cerebrale. Questo è il passaggio che Matt Haig opera in un testo che parte in
sordina e sembra proseguire senza un ordine apparente, ma che poi si rivela
universale. Tutte le liste che ritroviamo, indicative fra l'altro di un disturbo ossessivo-compulsivo di cui l'autore non nega l'esistenza, ci dicono cose che sappiamo già, eppure seguire
quei consigli può far bene, offrire una boccata d’aria.
«Quando la follia diventa normalità l’unico modo per ritrovare la sanità mentale è osare essere diversi. Oppure osare essere il se stesso che esiste al di là di tutta la paccottiglia fisica e i detriti mentali dell’esistenza moderna» (p. 317).
La prima soluzione, la più semplice, è scollegarsi e uscire.
David Valentini